In conversazione con Uzeyir Gasimov, architetto e urbanista.
Cosa si intende per architettura sostenibile?
Il termine architettura sostenibile inizia ad essere utilizzato sempre più frequentemente a partire dall’inizio degli anni ’70 durante la crisi energetica. Oggi, quando molte persone si riferiscono all’architettura sostenibile, immaginano edifici futuristici pieni di alberi, facciate in vetro con pannelli solari, materiali biodegradabili, etc.
Questo immaginario comune è stato creato negli ultimi quattro decenni grazie al marketing e ai mass media; in realtà l’architettura sostenibile presuppone una progettazione durevole e in sintonia con l’ambiente in cui è inserita. Questo tipo di progettazione si basa su un’analisi approfondita del contesto territoriale, dei fondamenti unici (clima, umidità, intensità del vento, del sole etc.) delle varie regioni geografiche, del patrimonio culturale e del modo di vivere degli abitanti di quei territori.
Possiamo chiederci, per esempio, se un progetto sostenibile creato per la savana possa essere applicato alla Siberia. È impossibile poiché il contesto è completamente diverso.
Oggi, si ha un’urgenza maggiore in previsione dell’incertezza ambientale, e architettɜ, designer, ingegnerɜ lavorano instancabilmente per sviluppare soluzioni sostenibili e il più adattabili possibile, non solo per l’architettura urbana ma anche nella produzione di oggetti quotidiani. Il design sostenibile inizia a circondarci e lo farà sempre di più.
Per Giulio Carlo Argan, l’ideazione progettuale è di per sé una forma di interdisciplinarità, che esclude qualsiasi forma di incomunicabilità delle discipline. Per Gillo Dorfles lɜ architettɜ vanno consideratɜ al pari delɜ artistɜ – Le Corbusier accanto a Ozenfant, Arp, El Lissitzky, Jeannert – in un rapporto dove le arti plastiche sono elementi dominanti per sorreggere anche la critica dell’architettura. Sia Argan sia Dorfles, due dei più grandi teorici dell’arte italiana, hanno quindi sempre sostenuto la tesi della fusione delle competenze e della relazione prossima tra le discipline più varie. Perché allora solo al ridosso della crisi climatica, si è sentita un’urgenza, meno accademica, di parlare di interdisciplinarità? Quali saranno gli scenari futuri per l’interdisciplinarietà applicata non solo alla progettazione urbana ma alla nostra cultura ambientale?
Sono pienamente d’accordo con entrambi. La stretta relazione tra le diverse discipline è fondamentale oggi e l’high-tech sarà sempre più dominante, dai sensori di inquinamento, ai riscaldamenti intelligenti, agli assistenti vocali, normalizzeremo la tecnologia come parte integrante del design. Io credo che l’interdisciplinarietà sia collegata anche al fenomeno della globalizzazione, che mescola l’esterno con l’interno, l’internazionale con il provinciale, l’antico con il contemporaneo. Bisogna sempre avere uno sguardo “altro“ nei confronti della propria disciplina e saper leggere le interazioni globali dei fenomeni che ci circondano. Solo come una moltitudine interconnessa abbiamo più possibilità di vincere la sfida della crisi climatica in atto.
Oggi, analizzando la storia dell’arte, possiamo riconoscere il filo conduttore, quel carattere comune tra il lavoro di Kandinsky, Mondrian con Mies Van Der Rohe e Louis Barragan. Tutti questi grandi geni hanno anticipato con visioni il secolo in cui già viviamo. A volte interpretando le loro opere si possono cogliere le nostre sfide comuni e la preoccupazione di problemi futuri.
Viviamo in un’era fortemente globalizzata e digitalizzata. Tutto ciò che ci circonda ambisce a essere più minimalista, tecnologico, più emozionale, più semplice e fruibile. Probabilmente, noi e la nostra generazione siamo una sorta di ponte verso il futuro, per il quale noi stessɜ non siamo ancora prontɜ. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità e dare vita a una nuova forma di Rinascimento. La tecnologia si sta sviluppando a un ritmo incredibile, ma non siamo prontɜ a processare tutte le informazioni che ci sommergono. E questa tendenza al minimalismo e alla emozionalità, anticipata già nel XX secolo, ci sta forse diventando comprensibile solo ora. I nostri interni stanno cambiando e si aggiunge sempre più tecnologia, mentre sostituiamo i soliti elementi di arredo decorativo in direzioni più funzionali. Possiamo prestare attenzione anche a come di riflesso i nostri vestiti stiano cambiando, diventando sempre più semplici, si preferiscono materiali organici (più freschi) e tagli netti (più comodi). È proprio il modo in cui metabolizziamo la globalizzazione nel suo complesso, tecnologica e culturale, lo scenario futuro e presente per rafforzare il dialogo interdisciplinare.
Songdo in Corea del Sud è un ottimo esempio di una nuova città che riunisce le migliori tecnologie del mondo, design degli edifici e pratiche eco-compatibili per creare uno stile di vita e un’esperienza di lavoro migliori. Smart e green è il modello per le città delle nuove generazioni?
Songdo è un progetto pionieristico nell’implementazione e nello sviluppo della cultura e della tecnica della città intelligente. Tuttavia, non credo nel modello delle città-macchina del futuro tutta tecnologia, sono convinto che il fattore umano sarà la caratteristica dominante. L’aspetto umano dovrà solo fronteggiare nuove sfide e esigenze, così la tecnologia e l’implementazione di sistemi verdi potranno aiutare in questa direzione.
Ogni crisi porta l’essere umano a costruire nuovi scenari per trovare soluzioni. Dopo l’epidemia di tubercolosi di fine Ottocento, l’architettura ha ridisegnato gli spazi privati e pubblici. L’architettura moderna ha privilegiato la luce, i grandi ambienti, la semplicità anche per dare una risposta di carattere sanitario. Come pensa che risponderà l’architettura o la progettazione urbana all’impegnativo post Covid19? Quali scenari cambieranno per affrontare le sfide della crisi climatica in relazione ai concetti di unità abitativa, spazio pubblico e luoghi di aggregazione?
Durante il periodo di quarantena dovuto al Covid19 la nostra quotidianità si è trasformata a causa di circostanze forzate, portando nuove priorità e scenari insoliti. Città e luoghi pubblici e di aggregazione si sono svuotati. Si sono rivalutati gli spazi interni e quegli elementi progettuali come balconi, verande, terrazze, giardini che potevano dare un senso di isolamento più piacevole.
Abbiamo iniziato a lavorare da casa, rendendoci così conto che il nostro fattore di geolocalizzazione non è più importante per il rendimento del lavoro. Possiamo essere a una distanza di uno o un centinaio di chilometri e non fa alcuna differenza. Si è riscoperta la campagna, la periferia, il sud Italia, con affitti meno cari e spazi più ampi e luminosi. Forse comprendere questo fattore ci permetterà di essere ancora più nomadi, scoprendo nuovi angoli del nostro pianeta. La città gentrificata ha iniziato a perdere il suo fascino. Probabilmente tra decenni queste nuove considerazioni cambieranno definitivamente il concetto di confine/limite/soglia tra i paesi e la popolazione del pianeta non avrà più un luogo di residenza permanente; quindi, possiamo pensare a un’architettura modulare e portatile, facilmente trasferibile e a un minore impatto ambientale in vista anche di probabili migrazioni climatiche. Gli interni verranno progettati per la mobilità e quindi saranno sempre più leggeri e facilmente assemblabili.
È importante notare che il Covid19 ci ha costretti a inquinare meno. E la natura si è ripresa i suoi spazi, ricordandoci che esiste la possibilità di cura, bisogna solo cambiare le abitudini di consumo e di produzione industriale.
Il fenomeno dellɜ archistar sembrerebbe non tramontare da Zaha Hadid, a Rem Koolhaas, a Santiago Calatrava ai nostri italianissimi Ettore Sottsass, Renzo Piano, Stefano Boeri. Questɜ architettɜ e i loro studi di progettazione, entrando nell’olimpo mediatico dei mass media, sono dei veri e propri marchi di fabbrica. Essendo dei brand si sono facilmente modellatɜ alle logiche del mercato e da qui sono intervenutɜ in numerosi settori e collaborazioni dalla moda, al design, ai complementi d’arredo, alle progettazioni di sostenibilità energetica e ecologica. Il termine Archistar ha un’accezione negativa perché insinua un eccessivo lavoro di comunicazione e di immagine da parte di questɜ architettɜ più che un impegno progettuale innovativo di per sé. L’interdisciplinarietà e le collaborazioni tra settori differenti possono e devono superare le logiche capitalistiche? Perché spesso i progetti, anche i più avveniristici, dellɜ archistar interessano una minoranza agiata di utenti rispetto a una platea più diffusa? Il problema è una mancanza di impegno governativo nell’architettura sostenibile o è un fattore di natura culturale?
Una domanda complessa che non ha una risposta univoca e risolutiva, poiché bisognerebbe tenere conto di diverse competenze socioeconomiche legate al capitalismo.
Vorrei ricordare i nomi di architettɜ, o archistar come i media lɜ definiscono, vincitorɜ di premi internazionali di rilievo come Locaton & Vassal, Alejandro Aravena, che hanno progettato e realizzato icone dell’architettura mondiale, ricche di soluzioni innovative, e con un’attenzione sempre alle esigenze sociali, non è detto che le due cose si escludano a vicenda. Credo che sia un po’ uno stereotipo abbinare lɜ famosɜ architettɜ all’avarizia e a interessi sempre e solo economici.
D’altra parte, trovo comprensibile e apprezzabile per ogni architettə ottenere un progetto con un budget molto elevato, così è possibile integrare un gran numero di soluzioni altrimenti non realizzabili e poter scegliere materiali rari e costosi. Certamente lavorare in queste condizioni è un privilegio che dà più possibilità alla creatività di prendere forma e come risultato genera un prodotto certamente più diffuso tra una minoranza agiata di utenti.
Detto questo credo che sia altrettanto importante per l’architettura generare una progettazione consapevole, saper gestire budget limitati e avere un focus maggiore sulle istanze dellɜ cittadinɜ che sulla vanità creativa. Bisognerebbe ridiscutere il ruolo pubblico dell’architettura in generale, e ripensare a che funzione hanno le istituzioni pubbliche e i capitali privati in relazione allɜ fruitorɜ ultimɜ soprattutto per fronteggiare meglio e più rapidamente i cambiamenti climatici. L’essenza di un progetto architettonico è disegnata sui bisogni di chi poi lo abita, sul luogo dove sorge e quindi sull’impatto ambientale che genera e su come la popolazione usufruisce di questa creazione. Tutti questi elementi condizionano il benessere di una comunità e sono un fattore culturale cardine per la società civile tutta anche in logiche capitalistiche, le uniche finora che possiamo e sappiamo sperimentare.
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