Intervista con Elena Barone, Consulente strategica di sostenibilità, economia circolare.
Che cos’è l’economia circolare? Quali sono le idee teoriche della sua genesi e quali le pratiche applicative più eloquenti di questo modello economico? L’economia circolare è un aspetto essenziale della transizione ecologica e del Green Deal europeo?
L’economia circolare è un (nuovo) paradigma di produzione di valore che oltre alla massimizzazione dell’utilizzo delle risorse, ne promuove il riutilizzo, ossia cerca di conservare le loro qualità, aumentando la produttività totale dell’unità di risorsa durante la sua vita, estesa quanto più possibile nel tempo, anche in forme diverse. L’obiettivo di questo modello economico è semplificabile con l’espressione “fare di più con meno, eliminando l’idea di rifiuto” ed è giustificato dalla finitezza delle risorse fisiche e energetiche.
Declinando questo concetto nei servizi, applicare l’economia circolare si può tradurre nel preferire l’utilizzo al possesso, accogliendo modelli di condivisione, prestito e riutilizzo.
Nei prodotti, tenere alto il valore di beni finiti, dei componenti e delle materie prime per il più lungo tempo possibile, allungando il loro ciclo di vita, utilizzando il valore residuo dei componenti prima di trasformarli, riportando i rifiuti allo stato di materie prime. Come? Con la riparazione dei beni ancora utilizzabili, il ricondizionamento dei prodotti alla fine del loro primo ciclo di vita e da ultimo il riciclo o la termovalorizzazione dei rifiuti.
Queste ultime due soluzioni non sono di per sé virtuose, ma valide alternative alla discarica.
Per attuare le pratiche circolari serve cambiare drasticamente il punto di vista dei produttori fin dal concepimento e il design di nuovi prodotti, dei governi nella deburocratizzazione della raccolta di prodotti e materiali al fine vita e dei consumatori.
Serve riconsiderare gli input e gli output di ogni sistema e assegnare valori diversi alle risorse finite.
Negli ultimi anni la crescente dipendenza da materie prime e l’accesso limitato alle fonti di energia hanno rivelato i limiti fisici al progresso e alla crescita incondizionata. L’economia circolare è e sarà sempre più la chiave per scardinare questi concetti. Inoltre, essendo le risorse finite e in via di esaurimento, il lato offerta e il lato domanda sono una quantità stabilità, oggi la popolazione globale è in crescita, quindi anche il livello di consumo pro capite, e la saturazione del sistema è presto evidente.
Per sopperire a questo limite, possiamo trovare alcune pratiche molto eloquenti. Alcuni esempi vengono dalle tradizioni del passato: un esempio è il modello del vuoto per pieno del milkman al quale generazioni passate si rivolgevano per avere il latte sempre fresco. Questo servizio a domicilio permetteva il riuso – e non il riciclo! – dei contenitori del latte. E ancora, l’abitudine dei nostri nonni di far passare di fratello in sorella, di cugino in nipote gli indumenti alla fine di ogni utilizzo, era spesso legata a una necessità di carattere economico. Infine, dal presente, è sotto gli occhi di tutti la circolarità di alcuni settori industriali di trasformazione di materie prime, come il vetro o la carta.
L’aspetto più essenziale della transizione ecologica e del Green Deal europeo è l’esigenza di non utilizzare i termini in modo eccessivo e a sproposito, di dare consistenza e coerenza a quel che è “green” e sostenibile, per evitare, come ahimè già sta accadendo, che questi termini siano fumosi nella mente dei consumatori, associati ad immagini confuse e, soprattutto, non supportati da dati scientifici.
La crescita di capitale si concentra sempre di più nelle mani di pochissimi, anche nel post pandemia, le economie mondiali hanno confermato e rafforzato questa tendenza. Come si potrebbe ridistribuire la ricchezza? L’economia circolare potrebbe aiutare a mitigare se non a risolvere questa disfunzione delle società del tardo capitalismo?
L’economia circolare di per sé non mitiga le criticità legate al capitalismo, ma sfrutta le sue stesse logiche in modo virtuoso, disaccoppiando la generazione di valore, profitti e capitale dall’incremento di inquinamento, sprechi e rifiuti. Finora strettamente legati.
Con modelli circolari di creazione del valore si possono però incentivare nuove abitudini di consumo che spingono all’acquisto di pochi prodotti, di maggiore durabilità, che, laddove obsoleti, trovando prima un canale per il mercato secondario e poi uno per il recupero di componenti e materie prime. Per allungare le fasi di utilizzo, aumentano i servizi di manutenzione, riparazione e aggiornamento dei beni: attività talvolta svolte manualmente, da personale specializzato.
In questo senso potremmo dire che alcune professionalità troveranno maggiore domanda nel mercato del lavoro e, essendo inizialmente più richieste, i loro salari potrebbero aumentare. Questo fenomeno avrà durata limitata nel tempo, fino al pareggiamento del bilancio economico. Ed è secondo me l’unica prospettiva in cui immaginare l’economia circolare come strumento parziale e temporaneo di ridistribuzione delle ricchezze.
Dal punto di vista del consumatore, di nuovo, l’investimento in nuovi beni sarà ridimensionato e aumenteranno i costi di periodo durante la vita utile dei prodotti, che ne risulterà estesa. A fine vita, il valore residuo dei beni non sarà nullo (o addirittura negativo, come un costo di smaltimento), ma sarà pari a quanto il prossimo consumatore sarà disposto a spendere per dare a quel prodotto una seconda vita, una seconda chance. E così per la terza, quarta e quinta.
Anche in questo senso l’economia circolare non modifica la distribuzione di ricchezza, ma impatta i bilanci dei singoli consumatori, riducendo gli “investimenti” e aumentando la spesa corrente.
Il pamphlet Un’economia indisciplinata di Gaël Giraud e Felwine Sarr offre numerosissimi spunti sui modelli economici e invita ad azioni rivoluzionarie con l’obiettivo di attenuare la crisi ecologica in atto. “Ci muoviamo in economie della malacrescita, fondate su un falso sistema contabile. Il sistema mondiale è costruito per produrre diseguaglianze” argomenta il filosofo senegalese Felwine Sarr, mentre l’economista francese Gaël Giraud sottolinea: “La nostra è una diagnosi lucida sulla distruzione ecologica del pianeta causata dall’Occidente. Che è come l’uomo di Vitruvio leonardiano, un maschio adulto completamente solo: non c’è la donna, non ci sono bambini né anziani, non c’è la natura. Solo geometria, cioè il potere della scienza e della tecnologia”. Cosa ne pensa di queste affermazioni?
Concordo con entrambe.
Il sistema economico tradizionale ambisce alla crescita incondizionata, misurata attraverso indicatori puramente economico-finanziari, che tralasciano dimensioni di analisi fondamentali.
La macroeconomia ci insegna che la ricchezza degli stati, insiemi di persone, si misura attraverso il PIL e tiene conto del livello dei consumi privati, della spesa pubblica, degli investimenti pubblici e privati e del bilancio tra esportazioni e importazioni. In questa equazione, però, non si calcola come e se la nostra economia risponde ai bisogni della società. Non sono espresse dal PIL variabili fondamentali come il livello delle disuguaglianze, la possibilità di accesso ai servizi, il livello di inclusione delle persone nella società, la loro felicità, la qualità della vita, la disponibilità di risorse naturali e il tasso di inquinamento.
E ancora, il livello di scolarizzazione, la coesione sociale e il senso di appartenenza.
Come diceva il senatore americano Robert Kennedy in un discorso all’università del Kansas nel 1968, il PIL “Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
Un altro esempio di indicatore macroeconomico che ci dà informazioni parziali è il livello di occupazione. Questo indice ci dice quanto il paese sta usando le sue risorse umane, quanto lavoro sta creando, ma non ci dà indicazioni sul tipo di lavoro e contratti a disposizione delle persone, sulla stabilità dei rapporti di lavoro, sul livello di sicurezza degli impiegati, la loro dignità, il livello di indebitamento dei lavoratori e il loro appagamento.
Inoltre, la mera massimizzazione del PIL nel breve termine ha generato maggiore insicurezza finanziaria e fisica, peggiorando la resilienza dei paesi, ossia la loro possibilità di reagire a shock (si pensi alle recenti crisi pandemiche e ai conflitti). Ce ne rendiamo conto osservando che mentre il PIL cresce, anche il livello dell’indebitamento, la quantità di risorse naturali in esaurimento e le emissioni lo fanno.
Questi sono messaggi chiari che la crescita economica tanto perseguita non solo non porterà più progresso, ma per via della sua insostenibilità, ci causerà danni via via più complessi da gestire.
Per sopperire a questi problemi di misurazione, le maggiori organizzazioni internazionali hanno creato indicatori ad hoc: un esempio è l’Human Development Index delle Nazioni Unite che incorpora valutazioni sulla salute, l’educazione della popolazione a misure di potere d’acquisto.
E come il PIL per gli stati, lo stesso discorso si può trasporre alle aziende. I bilanci e le valutazioni finanziarie fino a pochi anni fa, non accennavano nemmeno a dimensioni sociali (soddisfazione dei dipendenti, relazioni con le comunità, relazioni di fiducia con i fornitori,…) e ambientali (livello di sfruttamento delle risorse scarse o di produzione di rifiuti,…).
Fortunatamente il mondo sta cambiando e nuovi modi anche per valutare le aziende stanno via via fiorendo. L’esempio più immediato è legato al mondo della finanza e all’introduzione di dimensioni di analisi di investimento legate appunto alle performance “ESG”, che superano la mera valutazione dell’entità e il livello di rischio della capitalizzazione.
Venendo a quanto sostenuto dall’economista Gaël Giraud, lo sviluppo, dalla rivoluzione industriale in avanti, è stato estremamente antropocentrico. Come l’uomo vitruviano è posto al centro di figure geometriche perfette, l’essere umano è stato l’origine dello sviluppo e il suo benessere il fine unico e ultimo del progresso. Abbiamo così trascurato e dimenticato dapprima uomini e donne che non rientrano in quadrato e cerchio per i motivi più disparati, età, stato di salute, cultura, religione, genere, identità di genere… Abbiamo aumentato l’esclusione sociale e la disuguaglianza per inseguire un’economia “perfetta” per l’uomo vitruviano, che però ha lasciato indietro il resto dell’umanità. Allo stesso modo abbiamo trascurato l’impatto delle nostre azioni su fauna e flora e le conseguenze dannose per gli equilibri degli ecosistemi. Il progresso e la crescita non possono più essere fini a sé stessi, ma devono considerare fondamentali variabili ambientali e sociali. Dovremmo iniziare a non pensare più a come soddisfare i bisogni dell’uomo vitruviano riducendo i danni al pianeta e alla società, ma a come creare circoli virtuosi che rigenerino le risorse, includendo e valorizzando tutte le persone, mentre si soddisfano i bisogni della società. L’economia circolare ci può aiutare in questo.
Quali sono gli esempi, italiani e internazionali, di economie circolari che funzionano e che possono darci più fiducia per il futuro? Dovremmo intervenire subito per invertire la tendenza attuale dell’emergenza ambientale?
Il presente fermento generale nella direzione di modelli economici nuovi fa ben sperare. In Italia, in Europa e nel mondo stanno germogliando progetti, iniziative ed aziende virtuose. Sono disponibili ora prodotti e servizi nuovi che, supportati anche dalla tecnologia, rendono concreti i concetti di circolarità.
Vediamo che i prodotti iniziano ad essere ripensati, composti da un minor numero di componenti e materiali, oltre che ad essere disassemblabili. In questo il design per la circolarità sta svolgendo un ruolo fondamentale. I materiali di cui sono costituiti iniziano ad essere recuperati da rifiuti organici e addirittura stampati in 3D, là dove il cliente si trova, abbattendo i costi e tempi di logistica. Il modo in cui compriamo alcuni prodotti sta cambiando, come per gli alimentari, iniziamo a veder comparire negozi con prodotti sfusi. Sui servizi circolari, vediamo una fioritura di mercati online e offline per lo scambio e vendita di beni di seconda mano. Altri esempi riguardano l’aumento della componente di servizio legata a beni che un tempo erano acquistati come prodotti (si pensi alle librerie musicali o cinematografiche ad abbonamento in contrasto con i vecchi CD e sistemi di noleggio). Inoltre, la condivisione di oggetti e servizi (trasporti in auto,…) sta creando nuove comunità e reti sociali, stringendo i legami tra alcuni consumatori sensibili. Anche alcuni servizi ambientali si stanno innovando, come quello di depurazione delle acque reflue, che talvolta inizia ad impiegare batteri e microalghe, le cui biomasse sono raccolte e diventando biocombustibili o biofertilizzanti.
Questi esempi danno sicuramente molta fiducia nel futuro e ci suggeriscono che delle nuove soluzioni sono attuabili e che è sempre più il momento di agire.
Quali sono i limiti strutturali e le insidie che l’economia circolare potrebbe instaurare soprattutto in un Paese come quello italiano abituato troppo spesso a scostamenti di bilancio, con una difficile attitudine al recupero dei crediti sommersi e un debito pubblico notoriamente tra i più alti del pianeta?
Nel breve termine vediamo alcune inerzie che stanno rallentando la diffusione di pratiche circolari in Italia e nel mondo. Ne cito due, che ritengo più evidenti.
Dapprima il costo dei prodotti e servizi circolari e meno impattanti in generale è in certi casi ancora troppo più alto delle alternative classiche e questo rende la sostenibilità inaccessibile ai più.
Con il passare del tempo, il raggiungimento di masse critiche e l’ottimizzazione dei processi i costi di erogazione di tali servizi e produzione di beni si comprimeranno.
Inoltre, lo sforzo richiesto ai consumatori per indirizzare i loro beni verso percorsi alternativi alla discarica è ancora troppo faticoso e incompatibile con i ritmi e le comodità dei tempi moderni.
Nonostante l’esistenza di questi limiti, credo convintamente che l’economia circolare diventerà imprescindibile. Se ora ne parliamo come una possibile soluzione originale e “nuova”, la sua concezione si evolverà e l’assenza di alternative percorribili la renderà l’unica, indispensabile via per la sopravvivenza e il progresso, ripensato e “condizionato”.
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