In conversazione con Diletta Daversa Schiavoni psicologa, consulente sessuale, femminista intersezionale.
Che cosa è l’ecopsicologia e perché se ne dovrebbe parlare di più?
L’ecopsicologia è una disciplina relativamente giovane, nasce negli anni Novanta in California.
Affonda le sue radici in una sensibilità ancestrale, quella che percepisce la Terra intera come un essere vivente, e prende spunto da ambientalismo, ecologia e psicologia ambientale.
Da quest’ultima in particolare mutua le conoscenze teoriche su cui si basa il processo di elaborazione di pratiche terapeutiche, educative e formative, cardini dell’ecopsicologia. Il cambiamento che si propone di ottenere è il passaggio da una visione antropocentrica ad una ecocentrica, portare quindi l’essere umano a scardinarsi dal centro del mondo e a riconoscersi come una parte di esso. L’obiettivo finale? Creare una salda motivazione interna a prendersi cura della salute ambientale: se l’ambiente non è meramente il luogo in cui è la mia casa o la miniera di risorse da sfruttare, ma facciamo parte dello stesso organismo, allora prendermene cura risulterà naturale.
Marcella Danon (Ecopsicologia – Come sviluppare una nuova consapevolezza ecologica, 2020) scrive che le campagne di sensibilizzazione che cavalcano la colpevolizzazione e il catastrofismo hanno perduto la loro efficacia poiché, elicitando atteggiamenti difensivi, allontanano una grande fetta di popolazione. Alla luce di questo, l’ecopsicologia propone un nuovo approccio al problema ambientale: non più sensi di colpa ma senso di compartecipazione. Mi spiego meglio: le pratiche ecopsicologiche mirano a risvegliare il senso di connessione con la natura, facilitano l’accesso a quella prospettiva ecocentrica che ci fa sentire parte dell’ecosistema, non padronə né vittime, ma interconnessə e interdipendenti. Viene posta attenzione sia sullo sviluppo della consapevolezza di far parte di un insieme, sia sulla capacità di allargare i confini della propria identità fino a comprendere l’intero pianeta. La via, quindi, sarebbe fare leva sul coinvolgimento personale, validando la libertà d’azione umana intimamente legata al senso di responsabilità.
In riferimento all’ambito psicologico, quello di mia competenza, si dovrebbe parlare di più di ecopsicologia perché ci permette di aggiungere un tassello importante alla comprensione del funzionamento delle persone in quanto esseri immersi in uno specifico contesto – le nostre conoscenze coinvolgono il funzionamento familiare, quello relazionale, quello che ha a che vedere con le strutture sociali e di potere, il rapporto esistente tra i luoghi che si abitano e la psiche, strano che non ci si interroghi sul rapporto tra ambiente/natura (in cui siamo completamente immersə) e salute mentale, vero?
Intelligenza emotiva, intelligenza sociale sono termini celebri mutuati dalle ricerche di Daniel Goleman; perché l’intelligenza ecologica gode di meno notorietà, è solo un fattore temporale, la situazione cambierà? Come l’ecopsicologia interpreta l’intelligenza ecologica?
L’intelligenza ecologica è il terzo ed ultimo tipo di intelligenza di cui Goleman si è occupato e la descrive come “il nostro prossimo gradino evolutivo”. Dopo più di dieci anni dall’introduzione di questo concetto, direi che non abbiamo ancora fatto questo salto evolutivo, sarà per questo che non se parla?
In realtà credo che un generational shift sia già avvenuto e ne sono testimonianza i movimenti nati negli ultimi anni (penso a Friday For Future e Extinction Rebellion) e la passione con cui le persone anche molto giovani si occupano di crisi climatica e, più in generale, di ambiente. Sono aumentati anche gli interventi educativi nelle scuole, alcuni di stampo prettamente ecopsicologico, che mirano proprio a sviluppare l’intelligenza ecologica.
La cosa interessante di questo concetto è che si tratta di un tipo di intelligenza collettivo che si basa su tre principi:
1. Conosci il tuo impatto
2. Cerca e favorisci il miglioramento
3. Condividi ciò che impari
La condivisione è fondamentale proprio perché rende gli apprendimenti del singolo collettivi e ha la potenzialità di creare un effetto domino – o, come dice Goleman, un circolo virtuoso.
Come può risultare logico da quanto detto prima, per l’ecopsicologia lo sviluppo dell’intelligenza ecologica è assolutamente fondamentale, essendo il cuore del cambiamento che si vuole ottenere, ossia lo sviluppo della capacità di pensarsi e sentirsi parte del mondo, ancora meglio di riuscire ad espandere in questo senso i confini della propria identità fino a racchiudere la Terra intera. Una pratica ecopsicologica utilizzata per allenare l’intelligenza ecologica così intesa è la green mindfulness, che non solo porta l’attenzione a focalizzarsi sul mondo interiore e sulla consapevolezza del contesto, ma allena la capacità di percepire il senso di compartecipazione alla vita sulla e della Terra. Dallo sviluppo di questa percezione intima deriva anche la comprensione del legame tra azioni personali e conseguenze ambientali e la susseguente capacità di sostenere il senso di responsabilità che questo comporta.
L’interdisciplinarietà è uno degli aspetti cardine dell’ecopsicologia e per essere onesti anche di moltissime altre discipline del postmodernismo. Effettivamente nell’ultimo secolo abbiamo assistito a una specializzazione maniacale, soprattutto in ambito scientifico, al proliferare della téchne, adesso stiamo assistendo a un’inversione di tendenza? Se sì, un sapere più orizzontale, spalmato su più competenze, rispetto a uno verticale, sarà davvero il modo migliore per affrontare la crisi ecologica che stiamo vivendo?
Esatto, l’interdisciplinarietà è un aspetto molto importante dell’ecopsicologia, d’altronde come potrebbe non esserlo? Essa stessa è l’incontro tra psicologia ed ecologia e quest’ultima è stata una pioniera dell’applicazione della visione sistemica al suo campo di studio, che racchiude conoscenze su vegetali, animali, microrganismi, substrato geologico, clima, in un dialogo costante tra biologia, fisica e chimica. Inoltre, secondo Goleman l’interdisciplinarietà è una manifestazione concreta dell’intelligenza ecologica.
Non so se si possa parlare di vera e propria inversione di tendenza, quello che ho notato è che più ci si pongono domande complesse più diventa inevitabile rivolgersi a diverse discipline. Questo è ancora più evidente quando intervengono variabili socio-psicologiche. Mi sembra che la crisi ecologica, col suo complesso intreccio di variabili ecologiche, economiche, sociali e psicologiche, abbia tutte le caratteristiche per beneficiare, anzi forse per necessitare, di un sapere orizzontale, raggiungibile tramite l’interdisciplinarietà.
Vorrei spezzare una lancia in favore della multidisciplinarietà, mostrandovi e consigliandovi un esempio lodevole di progetto di ricerca in ottica di inter/transdisciplinarietà e sostenibilità proprio in campo tecnologico e scientifico: si tratta del progetto TRUST – Transdisciplinary for Urban Sustainability Transition (https://www.trustcollaboration.com/).
La green positivity è un trend tra i più seguiti in rete, questo può minare la causa svuotandola del suo significato? Personalmente trovo un po’ oppressiva tutta la positività preconfezionata da social media. Come e quando la positività può diventare tossica? Lei usa i social per la sua professione e, se sì, come percepisce la narrativa online rispetto quella offline? Trova uno scarto tra le due?
Non credo sia possibile svuotare la causa di significato, quello che può invece succedere a livello di impatto sociale è una percezione semplificata del significato. È accaduto, per esempio, con la body positivity, la cui versione mainstream risulta essere ipersemplificata e spesso anche molto lontana dalle radici del movimento. La causa no, non può essere svuotata, perché i movimenti continuano ad esistere e le persone che lottano, divulgano e sensibilizzano anche.
In realtà credo che i trend siano un’arma a doppio taglio: il rischio è sicuramente quello di trasmettere un messaggio ipersemplificato, a volte addirittura distorto, che può oscurare le azioni e non lasciare spazio alle voci di movimenti e attivistə; la potenzialità è quella di essere cassa di risonanza, di raggiungere moltissime persone, anche quelle che non fanno ancora parte dei movimenti, ma sono già predisposte ad accoglierne le idee, sono le persone che stimolate dai trend avranno la capacità e la volontà di approfondire.
La positività ha il rischio intrinseco di diventare tossica perché è un concetto che si inserisce in una visione binaria. Se elogiamo e inneggiamo alla positività vuol dire che esiste un’area che stiamo lasciando nell’ombra, a cui non stiamo dando attenzione e che stiamo anche giudicando “negativa”. La positività diventa tossica quindi quando dimentica di essere un possibile atteggiamento in un oceano di possibilità, quando diventa regola rigida e causa ansia da prestazione, quando da scelta personale si trasforma in metro di giudizio delle altre persone, e soprattutto quando diventa cieca rispetto ai privilegi che permettono la sua esistenza in determinati contesti. Penso per esempio alla cecità di alcune frange ambientaliste nei confronti delle problematiche delle persone disabili (si parla di ecoabilismo), grasse, povere o BIPOC. Per esempio, si sente parlare di ecoansia come principale problematica derivata dalla crisi climatica che impatta sulla salute psicologica. L’ecoansia è quello stato emotivo ansioso, depressivo o angosciante causato dalla consapevolezza dello stato in cui versa il nostro pianeta (Marcella Danon parla di “un ronzio di sottofondo che si traduce facilmente in una sensazione di angoscia” in quelle persone che anche se non hanno sviluppato la consapevolezza del problema sono comunque permeabili alle informazioni da cui vengono raggiunte). Il problema è che se ne fa una narrazione che mette al centro le voci di persone privilegiate (essenzialmente persone bianche del nord del mondo) e oscura i vissuti di quelle marginalizzate, che pure subiscono conseguenze psicologiche (e non solo) devastanti.
Credo fermamente che la lotta alla crisi climatica debba necessariamente essere intersezionale, quindi abbracciare la complessità non solo del bioma ma anche dei sistemi sociali.
Sì, uso i social anche se in maniera modesta perché non sento siano lo strumento adatto alle mie modalità espressive. Come dicevo prima riguardo ai trend, ci sono rischi e ci sono potenzialità strettamente legati al funzionamento dei social. Lo scarto tra narrativa online e offline potrebbe sicuramente riguardare l’edulcorazione e la semplificazione, anche se non penso che la narrativa online sia così omogenea come si possa pensare: su Instagram per esempio esistono bolle transfemministe e quindi anche ecofemministe molto interessanti, i cui contenuti sono orientati alla complessità anche a discapito della velocità di fruizione.
Viviamo in un’epoca in cui ci è richiesta sempre un’opinione soprattutto sui social e quando risultiamo più popolari, in una propensione che tende a livellare tutto verso il basso, a diminuire le distanze, a dire che tutti possono fare tutto e questo a mio avviso squalifica i meriti. Come si può comunicare in rete in modo che il messaggio sia il focus, e non il gradimento o i seguaci, si può fare la differenza, far notare le competenze, premiare il contenuto? Come possiamo renderci conto che più che di un parere abbiamo bisogno di uno specialista?
Partendo dalla sua riflessione, mi verrebbe da dire che il problema non sembra essere solo l’eventuale appiattimento verso il basso, che è sicuramente presente in alcuni casi (dicevamo prima della distorsione di messaggi importanti), quanto piuttosto la performatività. In un meccanismo che chiede sempre un’opinione su tutto, il più velocemente possibile, da esprimere attraverso contenuti che siano smart, catchy e appealing, ci si può sentire schiacciatə. Questa è sicuramente una sensazione a cui fare attenzione, un campanello d’allarme che ci avvisa che gradimento, seguaci e ruolo social potrebbero aver occupato troppo spazio a discapito del messaggio ma soprattutto del benessere psicologico. Non credo poi sia necessario “sparire” a favore del messaggio o appiattire l’ego per utilizzare al meglio i social come strumento di attivismo, anzi credo che una quota di piacere nell’esporsi sia fondamentale – altrimenti diventa un’autotortura e in quel caso esistono altri modi e altri mezzi per lottare per le cause che ci stanno a cuore. Banalmente, credo che provare piacere per quello che si fa, fare attenzione a non snaturarsi e allenare la capacità di centratura (qui ci viene in aiuto la mindfulness) per non farsi trascinare da meccanismi alienanti potrebbero essere delle buone linee guida per non perdere il focus.
Per quanto riguarda l’ultima domanda, non credo di poter fornire una risposta concisa e definitiva. Stiamo parlando di un malessere? Di una sensazione indefinita? Di un burn-out da attivismo? Nel caso sia presente una sofferenza, una preoccupazione persistente o anche semplicemente un dubbio o un cambiamento nello stato di benessere psicologico, ci si può tranquillamente rivolgere a professionistə per una consulenza psicologica e insieme si potrà definire il problema. Non tutti i primi colloqui sono l’inizio di un percorso, a volte abbiamo solo bisogno di una mano per fare un po’ di chiarezza e lə psicologə serve anche a questo.
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