WAMI, Water with a Mission, è un marchio di acqua minerale che nasce con una missione semplice ma significativa: porre fine al problema mondiale dell’acqua dando a ognuno di noi l’opportunità di essere parte della soluzione. Ne abbiamo parlato assieme al founder Giacomo Stefanini.
C’è una frase che sentiamo spesso pronunciare: siamo fatti d’acqua. Può capitare nei dialoghi di un film, di un libro o durante una conversazione, insomma questa “informazione” prima o poi ci arriva.
Precisamente lo siamo al 70%, lo è il nostro corpo, lo è il nostro pianeta, il quale però non ne ha così tanta potabile o almeno non è equamente distribuita (come ci ha confermato Giacomo durante la nostra conversazione “il problema in certi paesi non è la carenza d’acqua ma la sua distribuzione”) e così 3 persone su 10 non hanno accesso a servizi igienici di base e 2,3 persone su 10 a livello globale utilizzano fonti di acqua potabile contaminate da escrementi (dati ONU) che a loro volta sono responsabili di gravi malattie, mortali o fortemente debilitanti.
Inoltre, l’approvvigionamento di acqua comporta, a coloro che devono percorrere kilometri per farlo, levare tempo al lavoro, all’istruzione, al gioco (perché spesso se ne occupano i bambini). Comporta non poter irrigare a sufficienza i campi e avere quindi uno scarso raccolto con conseguenti problemi di malnutrizione. La mancanza d’acqua finisce per condizionare ogni aspetto della vita. Consideriamo che il cittadino medio occidentale consuma circa 150 litri di acqua al giorno.
Quello che a tanti potrebbe sembrare un problema insormontabile è diventata la mission di Giacomo Stefanini, founder di WAMI (assieme al co-founder Michele Fenoglio), WAter with a MIssion. Un business basato sul modello “Buy One, Give One”, cioè donare a chi ha bisogno lo stesso prodotto che acquistiamo.
Abbiamo chiesto a Giacomo com’è nato il progetto WAMI. “Nel voler effettuare una donazione, che sia verso una onlus o una no-profit, la domanda, il dubbio, che ci si pone è: dove finiscono i miei soldi? Arriveranno davvero dove vorrei? Si pone un problema quindi di trasparenza, di tracciabilità. Dopo aver scelto il modello di startup (Buy One, Give One), abbiamo creato una struttura digitale che permettesse a chi acquista una bottiglia di tracciare davvero il percorso della donazione, attraverso un qr code applicato sui singoli prodotti. A quel punto siamo partiti con un “anticipo di cassa” da investire nel primo villaggio, che abbiamo recuperato successivamente con la vendita delle bottiglie e da lì abbiamo finanziato il secondo progetto e così via, fino a creare un processo che si autoalimenta”.
L’equazione è semplice: 1 bottiglia acquistata corrisponde a 100 litri donati. “WAMI investe il 10% del suo fatturato nella costruzione di impianti, poi la messa in opera viene seguita in loco da associazioni come Lifewater International, Fondazione ACRA e AMREF”. In pratica si individua una falda acquifera sicura e sostenibile in prossimità delle comunità che beneficeranno del progetto ed è un ciclo che si autoalimenta: l’acqua viene pompata da queste falde in una cisterna collegata con le abitazioni del villaggio da una rete di tubature che termina con un rubinetto per ciascuna famiglia. Ogni rubinetto, il cui finanziamento richiede circa 10.000 bottiglie, fornisce più di 1.000.000 di litri di acqua.
Gli abbiamo chiesto se si fossero recati in qualcuno dei villaggi dove WAMI ha investito e, eventualmente, di parlarci delle sensazioni provate nel trovarsi lì. “In tutti i 50 villaggi. Oltre la bellezza nello scoprire nuovi luoghi, diverse culture, in alcuni casi certe dinamiche mi hanno rimandato un po’, con le dovute differenze, a quelle dei nostri nonni, quelli che durante il dopoguerra, come i miei, vivevano in campagna, quando non c’era elettricità e dove l’acqua la si andava a prendere al pozzo”. Il prossimo paese dove WAMI arriverà dovrebbe essere Haiti; possiamo partecipare anche noi a questo viaggio.
Maria francesca Davi dice
Bisognerebbe dare massima diffusione. Dalla Sicilia