Quante volte vi è capitato di dimenticare a casa il pranzo, la borraccia, oppure la borsa in tela per la spesa? E quante volte vi siete poi sentitə in colpa per aver dovuto comprare un’alternativa in plastica? Beh, la colpa non può essere solo vostra; in un mondo perfetto non avreste nemmeno dovuto preoccuparvi di avere davanti un’alternativa non sostenibile.
Le parole consumismo e green non dovrebbero mai essere associate, perché non possiamo pensare che comprare uno spazzolino in bambù sia una scelta sufficiente per mitigare gli impatti del cambiamento climatico. Il sistema economico ci ha trasformato in consumatori prima che cittadini e il movimento ambientalista colpevolizza i nostri acquisti non sostenibili. Tramite pubblicità, greenwashing e altre tecniche di marketing le grandi multinazionali hanno creato una società in cui felicità e realizzazione personale dipendono dall’acquisto dell’ultimo modello di IPhone. Questo vale anche per i prodotti eco-friendly, che non solo ti renderanno “felice”, ma faranno “stare bene” anche il pianeta.
Tutte le nuove imprese green annunciano sui social che per combattere il cambiamento climatico è necessario comprare i prodotti giusti e buttare subito via tutto ciò che non è ecologico nella nostra casa. Il reale problema, però, non viene mai affrontato: stiamo affidando il nostro futuro alla crescita economica e al progresso tecnologico illimitati su un Pianeta dalle risorse limitate. Come se non bastasse, uno studio del 2017 ha scoperto che il 70% delle emissioni di anidride carbonica sono attribuibili solamente a 100 multinazionali. Come possiamo quindi proteggere l’ambiente in un sistema che è per sua natura indivisibile dai combustibili fossili e dagli acquisti che fanno crescere il PIL?
Per creare un modello più sostenibile dovremo passare attraverso soluzioni sistemiche come il taglio dei sussidi alle compagnie petrolifere e l’implementazione di una produzione più circolare e duratura, che semplifichi le scelte di tuttə noi al supermercato, così come a scuola tramite l’educazione ad uno stile di vita meno materialista.
Siete una di quelle persone che credono davvero nel motto un dollaro = un voto? Credete che chi compri da H&M sia una persona cattiva che gira sempre la testa dall’altra parte? Anche per me era così, ma poi ci ho riflettuto e mi sono data una risposta diversa.
Le persone che promuovono uno stile di vita vegano o zero waste vengono spesso accusate di elitismo, e in parte queste critiche sono fondate. Io sono vegana da due anni, ma alcuni prodotti come il tofu non vengono venduti senza imballaggio in plastica e i negozi di sfuso hanno spesso dei prezzi proibitivi per uno studente universitario o un lavoratore sottopagato. Lo zero waste, inoltre, è un po’ come mettere un cerotto su una gamba rotta, perché elimina solo gli imballaggi visibili, ma le mandorle sfuse vengono ugualmente imballate e trasportate dal produttore/distributore al negozio, prima di essere messe in un ecologico contenitore di vetro.
Tutti i dispositivi digitali ed elettronici e migliaia di altri oggetti di uso quotidiano sono inoltre letteralmente programmati e costruiti per durare il meno possibile. L’obsolescenza programmata di cui si parla tanto negli ultimi anni è una tecnica applicata già dagli anni 50, quando si cominciò a creare delle lampadine a incandescenza con una durata inferiore rispetto ai modelli precedenti. L’economia, del resto, deve crescere, e come cresciamo se i nostri prodotti sono fatti troppo bene e nessuno li ricompra dopo pochi mesi?
Anche le alternative sostenibili, purtroppo, non sono sempre accessibili a tutti. In alcune zone del mondo, ma anche in Italia, le multinazionali sono in grado di produrre un pasto a basso costo, facendo sì che un cheeseburger di manzo o un piatto già bello pronto e imballato siano più economici di un’insalatona o di una pasta al pomodoro. Tutto questo accade grazie ai sussidi nazionali, alla possibilità di delocalizzare e anche perché nel nostro sistema economico chi rompe i cocci spesso non è costretto a pagarli, e se sei il primo produttore di plastica al mondo nessuno ti costringe a ripulire i fiumi di bottigliette che navigano nelle Filippine e negli altri paesi in via di sviluppo.
E quindi, cosa possiamo fare per avere un reale impatto, se essere un consumatore etico non è sufficiente?
Sicuramente, seguire un proprio sistema valoriale è meglio che acquistare senza preoccuparsi delle conseguenze. Detto questo, però, credo ci siano dei metodi più efficaci per provare a smuovere le cose dal basso. Sostenere un progetto o un’organizzazione ambientale, ad esempio, sono dei buoni punti di partenza per dare maggiore visibilità alla questione ambientale. Anche fare donazioni può essere un’ottima soluzione per chi ancora non se la sente di mettersi in gioco.
Un ultimo metodo, che personalmente trovo molto efficace è quello di contattare i diretti interessati, soprattutto in gruppo. Mi spiego meglio: se un’azienda qualsiasi riceve 50, perfino 100 o più mail in cui i suoi clienti richiedono di eliminare la plastica superflua dal proprio prodotto, l’azienda si sentirà in qualche modo spinta a cambiare le cose. Lo stesso vale per i social e per i politici influencer che popolano Instagram e Facebook. Anche se all’inizio può sembrare una tecnica inefficace, è in realtà di grande impatto. Le compagnie, così come i politici, non sono più abituati ad avere un confronto diretto con i propri elettori/consumatori. Un semplice boicottaggio individuale contro una o più multinazionali non potrà mai essere sufficiente: il nostro potere è valido solo se esercitato collettivamente tramite una comunicazione coordinata e diretta.
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