In conversazione con Giada Garbo biologa molecolare e cellulare.
L’ecologia (dal greco: οἶκος, oikos, “casa” o anche “ambiente”; e λόγος, logos, “discorso” o “studio”) è per definizione una scienza interdisciplinare che studia sia la scienza della vita (biologia) sia la scienza della terra (geologia). L’oggetto di studio privilegiato sono gli ecosistemi. L’ecologia compare in molti piani di studio delle facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali eppure la percezione che si ha spesso è che sia una disciplina riguardante più l’inquinamento e l’economia. Perché secondo lei questa visione collettiva?
Sì, è vero che abbinare l’ecologia ai fenomeni inquinanti o ai processi produttivi e economici è riduttivo e anche per certi versi semplificativo. Chi ha seguito un percorso di studi scientifico ha una visione più globale di come funziona la natura in uno stato normale, senza la presenza di contaminanti, e quali sono gli equilibri e le interrelazioni con gli animali e i loro habitat, quindi gli scienziati sono i primi a rendersi conto delle alterazioni umane di questi meccanismi millenari. Le dinamiche, per esempio, di determinate sostanze nella chimica organica che interagiscono attivamente con il suolo o nei processi di erosione sono più facilmente comprensibili da chi ne ha dimestichezza. Dal momento che si studiano i meccanismi microscopici che generano degli effetti negli ecosistemi, si ha una visione privilegiata e più critica su tutto quello che è il sistema natura. Così una biologa può usare i suoi strumenti tra le diverse competenze che ha acquisito dalla citologia, all’istologia, alla botanica, alla biochimica, solo per citarne alcune. L’ecologia generale e applicata è una delle tante materie di studio di un corso di biologia.
Il giornalista George Monbiot, esperto di questioni ambientali, in un illuminante intervento sul The Guardian di un anno fa, sottolineava la diffusa ignoranza di una cultura ecologica di base. Le riassumo il suo assunto: considerando nozione di cultura basilare sapere che Shakespeare era un drammaturgo lo è allo stesso modo sapere la differenza tra gli artropodi o i vertebrati, o conoscere la differenza tra un insetto e un ragno. Il giornalista britannico sottolinea come nessuno, neanche le persone più istruite, s’imbarazza a non saper spiegare il ciclo dell’acqua, le cause del buco dell’ozono o dell’effetto serra, e molti rimarcano quasi orgogliosamente la propria ignoranza, come se questi argomenti non riguardassero loro allo stesso modo di Shakespeare. Di sicuro la nostra società qualifica alcune discipline come più assimilabili di altre, ma qual è il peso reale dell’ignoranza in merito a questi concetti elementari nella formazione di un individuo adulto istruito? È sicuramente un fallimento collettivo ma porvi un rimedio potrebbe aiutare anche la causa ecologica tout court?
Sono pienamente d’accordo con il giornalista perché avere una cultura ecologica di base fa sicuramente la differenza nell’affrontare il problema della crisi climatica. Nel momento in cui un individuo ottiene consapevolezza dei processi basilari dell’ecologia, e questa si genera sempre attraverso la conoscenza, si ottengono comportamenti sociali più responsabili. Le branche delle scienze naturali ci vengono in soccorso per comprendere importanti realtà nella vita quotidiana di ognuno di noi tanto quanto Shakespeare, se non di più. Le scienze vengono sempre considerate come discipline oscure per addetti ai lavori e questo è un problema certamente culturale. Si dovrebbe parlare di scienza in modo più diffuso e a tutti i livelli ma sempre con intelligenza e precisione. Credo che il problema di molte di queste mancanze, per lo meno in Italia, sia imputabile alla scuola e ai programmi ministeriali e un po’ anche a una cultura umanistica più diffusa nelle conversazioni informali tra amici. Molti docenti di scienze e discipline matematiche non sono sufficientemente preparati e personalmente ho trovato il liceo deplorevole [… ride] mentre mi sono sentita molto più a mio agio con i contenuti universitari, quello che fa la differenza è sempre la qualità dell’informazione e l’abilità di chi la espone e la diffonde. Nella scienza non bisogna solo conoscere certi meccanismi ma essere anche poi in grado di spiegarli a un’audience di competenze diverse, dai bambini agli adulti. Non sono favorevole allo stile delle vecchie cariatidi […ride], è però tangibile che le nuove generazioni siano più affamate di scienza e più interessate a coltivare una coscienza ecologia rispetto, per esempio, a quelle dei miei nonni che non si interrogavano minimamente sull’uso nocivo dei pesticidi o su cosa potesse o meno generare il buco dell’ozono.
Pensando all’importanza della salvaguardia degli ecosistemi mi viene in mente il pluripremiato documentario My octopus teacher dove si descrivono le interazioni tra un polipo e il documentarista e tra il polipo e l’ecosistema marino di costiera nel quale vive. Come si può prima di tutto venire a conoscenza della bellezza dei processi simbiotici degli ecosistemi e poi come potremmo tutelarli? Quali strategie dal suo punto di vista dovrebbero essere messe in atto?
Ho visto questo documentario, l’ho trovato bellissimo, ho anche pianto, perché io amo la natura in modo viscerale quindi mi ha colpito anche emotivamente e non solo per il suo messaggio di tutela degli ecosistemi. Venire a conoscenza della bellezza dei processi dei simbionti è un tramite, ovvero un modo di saper guardare. La sensibilità ecologica non è solo giusta e auspicabile ma, secondo me, è anche un po’ una predisposizione a cogliere una visione globale e interconnessa del nostro ambiente/casa. Alcune persone sono più inclini a cogliere questa bellezza, altre meno ma anche qui l’educazione a queste tematiche gioca un ruolo di primaria importanza e nel nostro caso anche di urgenza.
Un mio professore di scienze naturali mi disse “ricordati sempre che sei una naturalista e il naturalista deve essere in grado di descrivere quello che vede” e quindi l’osservazione della natura è un processo non solo complicato di per sé ma che alimenta anche una responsabilità nel diffondere queste conoscenza agli altri in nome della natura stessa e di una bellezza, o chiamiamola pure armonia, in senso di categoria filosofica meno estetica ma più funzionale di una parte in relazione a un tutto. Io ho un’idea molto personale e, forse anche impopolare, sulla tutela degli ecosistemi. L’inquinamento è un fenomeno stratificato nel tempo e solo ultimamente ci siamo mobilitati a indicizzare e problematicizzare la portata di questi cambiamenti. Prima ancora che esistessero gli esseri umani in forma di Sapiens sulla terra le specie animali e vegetali si trasferivano e migravano per variazioni climatiche o ere glaciali e la selezione naturale operava la sua falce sulle varietà decretando l’estinzione o il proseguimento di una linea evolutiva. L’uomo è un fenomeno naturale e la nostra civiltà tecnologica ha, rispetto alle specie pregresse, lo svantaggio di cambiare il pianeta molto più rapidamente. Le preoccupazioni per la migrazione di specie a seguito della crisi climatica, per esempio, volatili che dall’Asia si stabilizzano in Europa, questi spostamenti sono una strategia di sopravvivenza in un pianeta dove la linea evolutiva ha premiato la specie del Sapiens. Il problema è di carattere morale se vogliamo, ma non si dovrebbe intervenire sulle singole specie aliene che invadono un altro ecosistema o nel controllare i flussi migratori degli ecosistemi in generale ma sulle cause che hanno generato queste migrazioni. Dovremmo ridurre l’impatto inquinante della nostra civiltà tecnologica e soprattutto della società occidentale, perché siamo quelli che consumiamo di più e più rapidamente le risorse per soddisfare i nostri bisogni. Le strategie da mettere in atto sono interdisciplinari e interessano numerosi aspetti della vita delle persone da quello economico a quello culturale. Sicuramente i dati non sono incoraggianti e anche Cina e India si instradano nella consumazione compulsiva delle risorse sulla matrice capitalistica-occidentale. Le civiltà rurali, che ancora oggi esistono sul nostro pianeta, non hanno nessun impatto ambientale, non voglio dire che dovremmo tornare indietro a una società preindustriale, ma comprendere che il prezzo del progresso della nostra specie non è sostenibile per sette miliardi di persone. Spero che non saremo così sciocchi da estinguerci, e non adattarci come è nella nostra natura di Sapiens, e trovare soluzioni alternative come l’uso di energie rinnovabili. È molto curiosa la nostra storia di specie, noi siamo partiti dal vivere completamente integrati con la natura e siamo arrivati a essere completamente slegati da essa e accelerare l’effetto serra in modo attivo con l’immissione di CO2 e quindi di condizionare il surriscaldamento del pianeta. Sicuramente nessuna altra specie era stata in grado di fare questo, è una sfida complicata ma abbiamo tutto l’interesse per superarla. Gli scienziati di tutto il pianeta stanno lavorando in questa direzione. Di seguito un video che mostra le varie estinzioni di massa che il nostro pianeta ha incontrato con relativi aumenti di anidride carbonica.
Con l’avvento del covid19 ci siamo ritrovati a parlare spesso di scienza e a confrontarci con virologi di ogni sorta. La scienza dal mio punto di vista si presta poco al confronto televisivo e/o alle diatribe giornaliste da acchiappa lettori, come si può adattare un linguaggio scientifico fatto di studi preventivi, analisi, modelli e dati a uno televisivo e mediatico che richiede sempre opinioni e risposte il più semplificate possibile?
Il problema della narrazione della scienza nel Covid19 è stato spettacolarizzare le discussioni in stile talk show, con ospiti provenienti da fazioni diverse, creare lo scontro di idee per massimizzare l’attenzione. La scienza non è concepita per essere fruibile in un contenitore televisivo con le regole degli opinionisti-virologi, non si apre a dibattiti, discussioni salottiere perché i tempi dei talk sono limitati e le domande abbastanza faziose, e nessuno riuscirebbe a dare delle rassicurazioni valide o risposte esaustive. Esporre una realtà molto composita come quella della virologia e della sicurezza pubblica richiede non solo competenza ma anche tempo e conoscenze pregresse in quanto intervengono numerosissime variabili. È stato fatto un grave errore ma è in linea con l’ignoranza scientifica generale italiana dove i virologi vengono stigmatizzati come catastrofisti o aperturisti perché il pubblico molto spesso non è in grado di assimilare la terminologia scientifica o comprendere questi fenomeni. Quando la gente non comprende tende a mitizzare come se la scienza fosse un tipo di religione, o una verità rivelata che decreta la possibilità o meno di fare qualcosa. La virologia può solo stilare modelli del contagio e dare previsioni probabilistiche soprattutto in relazione a un nuovo ceppo virale scoperto da poco. Bisognerebbe evitare sempre di fare conversazione per lo più politicizzata della scienza in favore di divulgazione scientifica come se si facesse con una classe di studenti, con una lavagna, e con la spiegazione anche dei concetti più semplici che ritornano continuamente nella narrazione pubblica come la proteina Spike o come funziona un vaccino.
Ricollegandomi al periodo pandemico che stiamo vivendo sono curioso di sapere il suo punto di vista riguardo al ruolo dell’erosione degli ecosistemi in relazione al proliferare di nuovi ceppi (SARS, mers, covid19) virali. Quali sono le attinenze tra questi elementi e qual è una possibile soluzione?
Non sono in grado di dare una risposta a questa domanda perché non sono a conoscenza degli studi che intersecano erosione ambientale e proliferare di nuovi ceppi virali. Posso dare un’opinione, quindi non è scienza ma un’analisi che mi verrebbe da fare sul momento senza conoscere dati e modelli pregressi. Il problema centrale, secondo me, anche con il proliferare di nuovi ceppi virali è legato al numero sempre più in crescita della popolazione umana su questo pianeta. Da sempre ci sono state le pandemie che hanno avuto il ruolo di ripristinare o frenare il numero della popolazione globale, questo avviene continuamente nel mondo animale e viene interpretato come un modo naturale di contenimento per una specie in espansione. In tutti i sistemi naturali quando c’è una sovrappopolazione compaiono spesso e più facilmente ceppi virali o patogeni vari e questo potrebbe essere una correlazione anche tra la specie umana e l’insorgenza di nuovi coronavirus negli ultimi anni. Ipotizziamo una comunità di cervi che abbia preso il sopravvento di un dato ecosistema, non avendo più predatori naturali o per altre cause la loro linea evolutiva sia stata fortemente agevolata, ci ritroveremmo a breve ad avere una sovrappopolazione di questi cervi in un dato habitat. In comunità di questo tipo il problema principale è l’approvvigionamento delle risorse, e aumentando di numero, ci sarà una maggiore competizione tra gli individui della specie, molti di loro non riusciranno a nutrirsi, saranno costretti a migrare e quindi esporsi maggiormente a altri ecosistemi anche avversi, si indeboliranno a seguito di denutrizione e fatica migratoria. Una situazione di questo tipo porterà i nostri cervi a avere un deficit immunitario, il loro organismo stressato dalla situazione di sovrappopolazioni sarà una preda facile di virus già esistenti o serbatoio di nuovi virus proveniente dagli ecosistemi alieni che attraverserà per cercare il cibo. Certamente con la specie umana il modello si complica e le variabili sono molto più difficili da definire. Dovremmo mettere in relazione il nostro modo di produrre cibo e distribuirlo con gli spostamenti frenetici che contraddistinguono la nostra società tecnologica che sono un vettore favorevole per i virus a diffusione aerea. Per le soluzioni ci vorranno anni, dobbiamo aspettare che studi diversi vengano a compimento e soprattutto abbiamo bisogno di capire come la nostra specie si comporterà in relazione a questi nuovi ceppi virali. La scienza è un processo di correzioni continuo in base alla formulazione di nuovi dati.
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