In conversazione con Cecilia Plicco, Shared Value & Sustainability Manager
Cosa è il Csr (corporate social responsibility) e perché è un segmento sempre più strategico per le aziende di oggi? L’acronimo ESG (environmental, social, and corporate governance) compare a macchia d’olio in molti articoli di finanza e non solo, di cosa si tratta?
C’è sempre molta confusione intorno ai termini che fanno riferimento al ruolo di un’azienda all’interno della società e a come un’impresa tratti le tematiche relative al suo impatto sociale e ambientale.
All’inizio si parlava di Corporate Social Responsibility (Responsabilità Sociale di Impresa), poi di Sostenibilità, poi di Shared Value (Valore Condiviso), ora si parla di fattori ESG – Environmental, Social and Governance.
Al di là dell’etichetta, il concetto ruota attorno a come un’azienda è inserita nel contesto in cui opera e alla consapevolezza del suo impatto economico, sociale, ambientale.
Proprio sul tema dell’impatto è importante soffermarsi. Un’impresa ha vari impatti, sia positivi che negativi, sul suo ecosistema e sull’insieme degli stakeholders – persone o gruppi – con cui interagisce. È fondamentale misurare tutti questi impatti, non solo quello economico.
E qui sorge la difficoltà. Mentre per quanto riguarda la performance economica e finanziaria è tutto ben definito e standardizzato in termini di misurazione e valutazione, quando si parla di impatto sociale, ambientale, di governance e di etica diventa tutto molto vago e manca uno standard o un sistema di riferimento univoco. È quindi a discrezione dell’azienda valutare di quali strumenti dotarsi per misurare questo tipo di impatto e quali azioni introdurre per migliorare la propria performance sociale e ambientale. Sta diventando sempre più importante dotarsi di un qualche strumento per intraprendere questo percorso, in quanto sono sempre di più gli investitori, le aziende, i consumatori attenti ai fattori ESG e a come un’azienda tratta il proprio impatto sociale e ambientale.
“Non si fa business se non c’è etica”. Nell’agosto del 2019, riuniti nella Business Roundtable, I CEO di aziende come Cisco Systems, Ibm, Apple, Amazon, Walmart, JP Morgan Chase, General Motors, Boeing hanno rilasciato questa dichiarazione pubblica. Questa strategia aziendale sembrerebbe un cortocircuito per colossi finanziari, che fino a ieri hanno massimizzato i profitti grazie anche a un uso a volte poco ortodosso dell’etica, o semplicemente, a parte l’aspetto moralistico, non c’è un’alternativa più proficua per fare impresa nelle aziende oggi se non attraverso la condivisione di valore?
Dal mio punto di vista è solo attraverso la ricerca di un valore condiviso che un’azienda può ambire a una crescita di lungo periodo. Questo non significa che un’azienda debba rinunciare alla generazione di profitto in quanto sarebbe un modello non sostenibile, ma che al profitto vengano affiancati altri obiettivi di impatto positivo sulla società e sull’ambiente.
La dichiarazione dei CEO delle aziende sedute alla Business Roundtable (BR) ha contribuito a stimolare il dibatto relativo a questo nuovo modello di business, che vede un duplice scopo di un’impresa: generare valore per gli azionisti da un lato e dall’altro anche per tutti i gruppi o persone su cui l’azienda ha impatto.
Ma la BR non è stata la prima a parlare di questo tema. Larry Fink, CEO di BlackRock – il più grande fondo di investimenti del mondo – dal 2018, nella sua lettera annuale indirizzata ai CEO delle aziende in cui il fondo investe, invita a considerare che il mondo delle imprese sta cambiando. Parla di cambiamento climatico, dell’impatto sulla finanza e sul settore privato in generale. Ancor più importante, parla dell’urgenza per un’azienda di indentificare uno scopo (“sense of purpose”), la ragione d’essere fondamentale di un’azienda, ciò che essa fa ogni giorno per creare valore per i suoi portatori d’interesse.[1]
Esiste un modello di business che abbraccia appieno questo concetto. Si tratta del modello societario di Benefit Corporation (o Società Benefit in Italia) e della comunità delle aziende certificate B Corp. Sono due concetti distinti ma complementari, due strumenti che sono a disposizione di un imprenditore o di una imprenditrice che vuole evolvere verso questo nuovo modello di business. Benefit Corporation o Società Benefit[2] è uno status legale nato negli Stati Uniti e disponibile in Italia a partire dal 2016. Questo status legale implica che un’azienda assuma un impegno legale, indicando nel proprio statuto un duplice scopo: da un lato la generazione del profitto e dall’altro la creazione di un impatto positivo sulla società, sulle persone, sulle comunità e sull’ambiente.
La certificazione B Corp[3] è, invece, uno strumento complementare, in quanto si basa su un modello di misurazione della performance sociale ed ambientale di un’azienda[4], accessibile online da qualsiasi azienda, di qualsiasi settore o dimensione, ovunque nel mondo, che fornisce una misura di quanto l’azienda performa in modo sostenibile su 5 aree: governance/etica, lavoratori, comunità locale, ambiente e modello di business/clienti. Il risultato della valutazione fornisce un semplice punteggio, che indica se un’azienda sta effettivamente generando più valore per la società, rispetto alle risorse che vengono assorbite per l’attività produttiva. Sulla base del punteggio ottenuto, l’azienda può ambire alla certificazione B Corp, erogata da un ente terzo[5], quale riconoscimento di elevati standard di perfomance sociale e ambientale e di trasparenza e della volontà dell’azienda di intraprendere un percorso di continuo miglioramento del proprio impatto.
Nel 2019, quando è uscita la dichiarazione dei CEO della Business Roundtable, le comunità B Corp in varie parti del mondo (USA, Italia, Australia, etc) hanno risposto, chiamando le aziende della BR ad andare oltre le parole e a agire concretamente per un reale cambiamento. Let’s get to work è stato l’invito dei leader B Corp.[6]
Attraverso le strategie di shared value il ritorno di immagine è molto importante nelle società evolute nelle quali viviamo dove i dipendenti, i consumatori e il territorio sono strettamente legati fra loro. Come si possono evitare i fenomeni di greenwashing, pinkwashing e tokenismo soprattutto in relazione alle pratiche di diversity management? Le certificazioni, gli enti di controllo e gli standard concordati sono sufficienti o si dovrebbe fare di più per la trasparenza?
Ecosostenibile, a impatto zero, a impatto meno uno sono solo alcuni dei claim che le aziende hanno iniziato a implementare nella comunicazione relativa ai loro prodotti. Ma non è tutto oro quello che luccica e sta diventando sempre più difficile per un consumatore capire se veramente un’azienda ha intrapreso un percorso sostenibile o se sta praticando greenwashing.
In questo caso parliamo di impatto ambientale, la dimensione più nota della sostenibilità. È ancora più difficile fare questa distinzione se parliamo di altre dimensioni della sostenibilità, come il divario di genere oppure i temi legati alla diversità e inclusione. Sicuramente quello che manca sono linee guida e standard univoci a cui le aziende possono far riferimento per provare di aver effettivamente intrapreso un percorso di miglioramento del proprio impatto sociale ed ambientale. È necessaria una maggiore trasparenza su come vengono gestite le questioni legate alla sostenibilità.
Esistono vari standard di reportistica e trasparenza a cui un’azienda può far riferimento per essere più trasparente[7]. Tuttavia, oggi ci sono ancora due grandi temi irrisolti: da una parte il livello di trasparenza e su che cosa essere trasparenti è su base volontaria per la maggior parte delle aziende, dall’altra manca uno standard univoco di riferimento.
A livello europeo la cosiddetta reportistica non finanziaria, che studia le dimensioni di impatto sociale ed ambientale, è imposta dalla legge solo per aziende quotate con più di 500 dipendenti. Il segnale positivo è che l’Europa sta lavorando su un aggiornamento della direttiva che allargherebbe a partire dal 2023/2024 l’obbligo di trasparenza a tutte le aziende di una certa dimensione, anche non quotate.
Ha studiato tra Milano, Londra e Singapore, e si sposta spesso in Africa occidentale per lavoro; quindi, ha una visione complessiva delle differenze di tessuti economici su scala planetaria. Per far fronte alla crisi climatica attuale i paesi con Pil più alto devono e/o dovrebbero intervenire più rapidamente rispetto a quelli in via di sviluppo?
Sono pienamente d’accordo sul fatto che i Paesi sviluppati debbano impegnarsi maggiormente e più velocemente a favore dei Paesi a basso reddito per far fronte al cambiamento climatico. E non lo penso solo io, è stato uno dei temi centrali trattati recentemente alla COP26 a Glasgow.
Il cambiamento climatico moltiplica le sfide che devono affrontare zone fragili del mondo e l’ingiustizia sta anche nel fatto che aree come gli stati del continente africano hanno meno responsabilità sulle cause del cambiamento climatico rispetto ai paesi ad alto reddito, nonostante ne subiscano le conseguenze maggiori. Ad esempio, il cambiamento climatico è considerato anche causa indiretta della probabilità di aumento di violenza e conflitti. Il clima ha un impatto sempre più influente sulla distribuzione delle risorse e dei mezzi di sussistenza, sulla sicurezza e sull’immigrazione. La pandemia ci ha chiaramente insegnato quanto il mondo sia interconnesso e quindi come non possiamo più scappare dalla necessità di guardare oltre i confini nazionale e affrontare problemi globali, come il cambiamento climatico, con un approccio complessivo.
Uno scrittore siciliano Gesualdo Bufalino ha scritto “fra imbecilli che vogliono cambiare tutto e mascalzoni che non vogliono cambiare niente, com’è difficile scegliere!”. Crede che siamo più imbecilli o mascalzoni oggi?
Oggi purtroppo ci sono ancora un po’ di mascalzoni! In generale c’è ancora tanta strada da fare affinché tutte le aziende in tutti i settori capiscano la necessità di cambiare modello di business e ricercare il valore condiviso.
Le imprese hanno delle grandissime responsabilità nei confronti della società, per esempio rappresentano una delle principali fonti di emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera, rappresentano una delle principali opzioni per la mobilità sociale delle persone e attraverso le innovazioni e la ricerca sono in parte responsabili del progresso sociale e economico dell’ultimo secolo. Alla luce di questo tipo di responsabilità non è più possibile che le imprese, a fronte delle risorse sociali ed ambientali che utilizzano, si sottraggano ad un’attenta analisi degli impatti del proprio modo di condurre il business, come invece hanno spesso fatto in passato. Ce lo chiede il pianeta, ce lo chiedono la società e ce lo chiedono i giovani.
[1] Per approfondire: A Sense of Purpose (2018) https://www.blackrock.com/corporate/investor-relations/2018-larry-fink-ceo-letter ; lettera ai CEO 2021 https://www.blackrock.com/it/investitori-privati/2021-blackrock-lettera-clienti
[2] https://www.societabenefit.net/cosa-sono-le-societa-benefit/
[3] https://bcorporation.eu/about-b-lab/country-partner/italy
[4] Lo strumento su cui si basa il modello è chiamato B Impact Assessment, https://bimpactassessment.net/
[5] L’organizzazione non profit che certifica le aziende B Corp si chiama B Lab: https://bcorporation.eu/about-b-lab.
[6] https://bthechange.com/dear-business-roundtable-ceos-lets-get-to-work-25f06457738c; https://medium.com/@italy_8093/mettiamoci-al-lavoro-9c4835d6a157
[7] Per citare alcuni standard: Global Reporting Initiative (https://www.globalreporting.org/), Sustainability Accounting Standards Board-SASB (https://www.sasb.org/about/sasb-and-other-esg-frameworks ), Task Force on Climate-related Financial Disclosures-TCFD più strettamente legato al cambiamento climatico (https://www.fsb-tcfd.org/).
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