Sostenibilità, partenariato, coesione sociale e territoriale sono alcuni dei principali pilastri che hanno indirizzato la programmazione della strategia Europa 2020. Non così distanti, in fondo, da quelli promossi da una delle realtà più innovative e silenziose presenti nel panorama nazionale in materia ecologica: la comunità degli ecovillaggi. Per capire a che livello si collochi l’interazione tra questi due orizzonti apparentemente molto compatibili, abbiamo parlato con Francesca Guidotti, ex presidente della Rete Italiana Villaggi Ecologici, autrice e networker per Terra Nuova Edizioni.
Con il nome di ecovillaggio si indica una comunità intenzionale caratterizzata da “un progetto di vita comunitaria ispirato alla collaborazione, alla coesione e alla solidarietà sociale, economica e culturale dei suoi aderenti” (proposta di Legge 22 ottobre 2020).
Il fatto che ad oggi questa categoria non venga ancora riconosciuta dalla legge italiana costringe le persone che vivono in questo tipo di comunità ad escogitare metodi sempre nuovi per riuscire a relazionarsi con la sfera pubblica.
Francesca Guidotti ci spiega come, per mettere in regola le proprie attività, un ecovillaggio si trovi spesso costretto a ricorrere ad una denominazione giuridica multipla. Solitamente, ad esempio, le attività informali e le relazioni amicali che si stringono attorno alla comunità vengono riassunte sotto la forma legale di associazione o fondazione, mentre la parte economico-lavorativa si declina, a seconda dei casi, in cooperativa o azienda agricola.
“Ci sono situazioni in cui il riconoscimento formale non rientra tra gli obiettivi primari di una comunità. Spesso la legittimazione reciproca e la collaborazione che si instaura con gli enti e le istituzione è sufficiente per far funzionare una buona rete sul territorio.”
Com’è noto infatti, il livello locale costituisce in molti casi uno dei punti di forza della realtà degli ecovillaggi: riconosciuti come fonte di arricchimento per il territorio, riescono ad ottenere la fiducia necessaria per attivare un processo di valorizzazione della zona in sinergia con gli attori locali.
“Dall’altro lato tuttavia ci sono comunità che soffrono questa mancanza di riconoscimento: nelle condizioni attuali interagire con la società diventa complicatissimo. Bisogna inventarsi una modalità corretta formalmente e legalmente che rispecchi quanto più possibile una parte di ciò che sei ma che in fondo non la corrisponde mai pienamente. Perché sei qualcosa che non esiste agli occhi della legge.”
Per riempire la zona grigia ancora presente nella giurisprudenza ed ovviare a questo tipo di forzature, dal 2014 la Rive -Rete Italiana Villaggi Ecologici- ha depositato tre proposte di legge, di cui l’ultima versione risale al 20 ottobre 2020 (legge 2730 su iniziativa del deputato Zolezzi) per il “Riconoscimento e la disciplina delle comunità intenzionali”.
A livello europeo, spiega ancora Francesca, il problema si pone in maniera analoga. Gli ecovillaggi continuano a non assumere alcun significato formale mentre il loro rappresentante europeo, il Gen (Global Ecovillage Network), interagisce come interlocutore riconosciuto dall’Ue e viene interpellato circa alcune politiche sull’ecologia.
Nessun problema, dunque? Si tratta solamente di una questione di correttezza formale in un sistema che già, di fatto, funziona? Ovviamente no. Una delle conseguenze più evidenti che questo scollamento produce si può trovare, per citare un esempio tra tutti, proprio nella possibilità di accesso ai fondi europei: se la categoria degli ecovillaggi non esiste per le istituzioni, non possono esistere nemmeno dei finanziamenti ad essi destinati. Per partecipare ad un bando dunque, è necessario tentare di accedere a fondi pensati per settori diversi, come ad esempio quelli per la riqualificazione energetica o per la manutenzione del territorio.
Com’è noto, inoltre, partecipare ad un bando richiede molto lavoro, abilità nella stesura, competenze, spesso un finanziamento iniziale da parte del richiedente – quello del co-finanziamento è infatti un principio fondamentale della programmazione europea- e quasi sempre delle garanzie. Tutte risorse di cui un ecovillaggio, specie se nelle sue prime fasi, spesso non dispone.
Per quale motivo allora, una comunità dovrebbe interessarsi alla possibilità di accesso a dei finanziamenti europei?
“C’è sicuramente una parte degli ecovillaggi che preferisce non accedere ai bandi, sia per inconsapevolezza sia per scelta politica, ma dall’altro lato c’è anche un livello di consapevolezza che sta maturando negli anni circa le varie potenzialità del finanziamento europeo e delle opportunità offerte dall’Ue.”
Sulla base di queste considerazioni vale la pena di soffermarsi sugli aspetti che accomunano l’orizzonte di obiettivi europei con quello delle comunità intenzionali, non tanto per forzare un parallelismo o supporre una identità tra due mondi che appartengono evidentemente a due percorsi molto distanti, quanto piuttosto per riflettere sull’esistenza di un terreno comune disponibile ad una maggiore collaborazione.
Alla sfera degli ecovillaggi va senza dubbio riconosciuta l’autosufficienza e l’indipendenza strutturale attraverso cui negli anni è stata in grado di concretizzare soluzioni che molto spesso rimangono ancora soltanto degli obiettivi da raggiungere per il panorama politico.
Tuttavia, mettendo da parte i nodi divisivi, possiamo notare come la pianificazione politica Europa 2020 si sia caratterizzata per una particolare attenzione all’inclusività, all’innovazione ecologica ed allo sviluppo territoriale.
Ancor più che nel contenuto, un nesso evidente si trova nella questione metodologica: l’iter di policy making europeo infatti, oltre ad ammettere una fase bottom-up, di proposta e partecipazione dal basso, premia i progetti in grado di creare rete e trasformare un finanziamento in un ciclo di sostenibilità il cui effetto duri anche al termine dello stesso.
In effetti, conferma Francesca, per quella porzione di ecovillaggi che si trova nelle condizioni di poter partecipare e dispone delle energie e della motivazione sufficiente, il riscontro spesso arriva. Non è raro infatti che i progetti proposti dagli ecovillaggi rispecchino naturalmente la quasi totalità dei requisiti di sostenibilità, networking, partenariato che vengono ricercati nei candidati ai bandi europei. Ne sono un esempio le numerose attività di formazione e gestione dei volontari che vengono accettate e finanziate dal programma Erasmus, grazie a proposte particolarmente innovative e multiple, che sanno coniugare pratica, formazione ecologia e processi partecipativi.
In una fase di transizione e di costituzione nuovi scenari, succede spesso che la giurisprudenza presenti delle zone grigie e che il riconoscimento formale nei confronti di realtà spontanee ed innovative come le comunità intenzionali arrivi con un certo ritardo sulla realtà dei fatti.
Se pensiamo però che quest’ultima abbia un valore ed un ruolo da svolgere nella nostra società, non possiamo che sperare in un’accelerazione di questo processo. Ad oggi infatti ci si trova davanti ad un quadro che vede due orizzonti che si toccano in numerosi punti, che spesso si riconoscono a vicenda ufficiosamente ma che non riescono a darsi un nome.
Una legislazione attuale e completa in merito è indispensabile anche per ottenere al più presto delle politiche adeguate, senza le quali il rischio è quello di rallentare se non di ostacolare un processo di riconoscimento reciproco e di interazione che è già nato e necessita solamente degli strumenti adatti al il proprio sviluppo.
Giuseppina dice
Io voglio cosrtuire un eco villaggio in cooperazione ,ma al sud Italia,volevo informazioni per usufruire dei fondi¡
Salve
Claudia dice
Ciao , al sud Italia dove? Io vorrei fare lo stesso in Puglia