Nel corso degli ultimi anni, il fenomeno delle cosiddette ‘climate litigations’ è cresciuto in maniera costante. A livello globale più di 800 casi sono stati depositati tra il 1986 e il 2004 e solo negli ultimi 6 anni i casi sono stati più di 1000. Con il termine climate litigation si fa riferimento alla possibilità per coloro che hanno subito una violazione di rivendicarlo attraverso un’azione legale presso gli organismi predisposti. In questo caso le vittime possono ottenere il riconoscimento di una violazione, ad esempio tramite ricompensa, da enti privati, Stati o chiunque sia responsabile per un danno ambientale che ha causato un deterioramento del benessere della vittima o di un’intera comunità. Si tratta quindi di uno strumento interessante per evidenziare non solo la responsabilità dei soggetti coinvolti in pratiche inquinanti ma anche per spingere gli organi legislativi ad intervenire in maniera più decisa in materia ambientale.
Nel suo ultimo rapporto, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici – ha riconosciuto per la prima volta l’importante ruolo svolto dalle climate litigations nell’influenzare ‘il risultato e l’ambizione della governance in materia climatica’.
Secondo quanto riportato dal Grantham Research Institute on Climate Change and the environment in collaborazione con il Centre for Climate Change Economics and Policy, nel 2021 i procedimenti di climate litigations presentati nel mondo sono stati 193. Di questi, 38 sono stati intentati contro soggetti privati, spesso in combinazione con soggetti governativi. Questo dato rappresenta un netto aumento rispetto al 2020, quando solo 22 cause furono presentate contro compagnie private.
Un dato rilevante è legato al fatto che, sebbene la stragrande maggioranza dei casi registrati sia collocabile nei paesi occidentali – Stati Uniti, Europa e Australia – il periodo tra maggio 2020 e maggio 2021 ha visto anche la continua crescita di azioni giuridiche intraprese nel Sud del mondo con 32 casi registrati in America Latina e Caraibi, 18 in Asia e 8 in Africa.
Le compagnie operanti nel settore dei combustibili fossili sono tra le più colpite da questi procedimenti giudiziari. Tra le motivazioni che hanno spinto i contendenti ad intraprendere un’azione legale vi sono: affermazioni ingannevoli riguardo la produzione di energia pulita, proposte di investimento in progetti ad alto impatto ambientale, mancato rispetto delle regolamentazioni ambientale pertinenti e mancata riduzione delle emissioni di carbonio.
Tra i casi registrati, alcuni hanno tentato di dimostrare come alcune di queste aziende abbiano cercato di nascondere informazioni riguardanti il loro contributo al cambiamento climatico mentre altri hanno provato a mettere in luce la responsabilità delle stesse sugli effetti della crisi climatica in atto. Certamente, il fatto che la maggior parte delle emissioni di gas serra presenti e future sia dovuta alle attività di questi soggetti è il motivo principale di un aumento costante di casi giudiziari che coinvolgono proprio questo settore.
Nel maggio 2021 il tribunale distrettuale dell’Aia (Milieudefensie v. Shell) – lo stesso che sei anni prima aveva pronunciato la decisione storica nel caso Olanda c. Urgenda in cui i giudici avevano invitato il governo olandese a ridurre di almeno il 25% le emissioni di CO2 nell’atmosfera entro la fine del 2020 – ha ordinato alla multinazionale con sede in Olanda, Shell di ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica del 45% rispetto ai livelli del 2019 entro il 2030 al fine di garantire il rispetto della soglia di 1,5°C stabilita dagli Accordi di Parigi. Il procedimento giudiziario è stato intentato da diverse ONG ambientali e guidata dalla sezione olandese di Friends of the Earth insieme a più di 17.000 co-querelanti. La corte non ha ritenuto che la Shell agisse illegalmente, ma ha stabilito che la società ha l’obbligo (‘significant best-efforts obligation’) di impegnarsi a ridurre significativamente le proprie emissioni, quelle dei propri fornitori e consumatori lungo tutta la catena produttiva.
Allo stesso tempo, tra i casi in crescita vi sono quelli contro aziende del settore alimentare, agricolo e della plastica, con cinque casi rispettivamente per settore depositati nel 2021. Tra questi troviamo Envol Vert et al v. Casino, riguardante il coinvolgimento della catena di supermercati francese Casino nell’industria del bestiame in Brasile e Colombia. Grazie ai dati elaborati dal Center for Climate Crime Analysis, l’azienda è accusata di aver contribuito alla deforestazione di circa 50.000 ettari tra il 2008 e il 2020, con conseguente violazione dell’obbligo di sorveglianza (duty of vigilance) previsto dalla legge francese che richiede alle aziende di condurre indagini sull’impatto delle proprie attività sull’ambiente e i diritti umani. Un altro esempio riguarda la messa in discussione delle affermazioni fatte dal produttore di carne di maiale Danish Crown sulla sostenibilità della sua produzione ed infine i tre casi intentati contro l’azienda di bevande all’avena Oatly, legati alla sua presunta attività di greenwashing – strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo.
Il settore agricolo, così come quello energetico legato ai combustibili fossili, è anch’esso responsabile di una larga fetta di emissioni di CO2. Il rapporto dell’IPCC sui cambiamenti climatici 2022 ha rilevato che nel 2019 circa il 22% delle emissioni antropogeniche totali proveniva dall’agricoltura, dalla silvicoltura e da altri utilizzi del suolo. Nonostante la diffusione di questi dati, gli investimenti in politiche di mitigazione nel settore sono ancora molto bassi. Di conseguenza, le climate litigations rappresentano uno strumento di pressione per colmare un vuoto legislativo e politico.
Per quanto riguarda il settore della plastica, nel caso Last Beach Cleanup v. TerraCycle, Inc. è stato contestato il modo in cui la plastica monouso e altri materiali difficili da smaltire nel contesto di un’economia circolare vengano invece commercializzati come facilmente riciclabili. Le affermazioni sulla plastica biodegradabile sono state contestate anche in Rosencrants v. Danimer Scientific, Inc. Persino Coca-Cola è stata coinvolta in procedure giudiziarie simili, relativamente alle sue affermazioni di essere ‘un’azienda sostenibile ed ecologica’ nonostante la sua produzione di plastica annuale (stimata in più di 200.000 bottiglie di plastica prodotte al minuto) e in relazione alle affermazioni circa la riciclabilità delle sue bottiglie di plastica.
Quattro casi sono stati depositati anche nel settore dei trasporti. La Deutsche Umwelthilfe (DUH), un’associazione tedesca per la tutela dell’ambiente e dei consumatori, ha intentato cause contro BMW e Mercedes-Benz, basandosi in entrambi i casi sulla precedente decisione della Corte costituzionale federale tedesca in Neubauer, et al. v. Germany, in cui la stessa ha stabilito che il paese dispone di un budget totale di CO2 limitato. La DUH afferma che, non impegnandosi in modo chiaro e irreversibile a eliminare gradualmente la vendita di auto con motori a combustione interna entro il 2030, passaggio necessario affinché le aziende aderiscano ai budget di carbonio assegnati, BMW e Mercedes-Benz stanno violando il diritto fondamentale alla protezione del clima e contribuendo alla violazione dei diritti e delle libertà delle generazioni future. Con argomentazioni simili, una causa è stata intentata anche contro Volkswagen da tre giovani attivisti associati a Greenpeace e Fridays for Freedom Germany.
Nel settore finanziario, lo scorso anno sono state intentate tre cause contro privati. La prima consiste in una denuncia presentata all’autorità australiana per gli standard pubblicitari contro HSBC che contestava dichiarazioni fuorvianti sulla protezione della Grande Barriera Corallina mentre la seconda ha coinvolto gli amministratori del più grande fondo pensionistico privato del Regno Unito, accusato di essere stato mal gestito, in parte a causa della sovraesposizione ad investimenti legati al settore dei combustibili fossili. Considerata l’importanza della finanza climatica nella lotta i cambiamenti climatici, non sorprende l’interesse crescente dimostrato nei confronti di questo settore.
Ad oggi sono relativamente pochi gli strumenti che garantiscono il diritto di ciascuno ad un ambiente salubre e la situazione varia a seconda dei paesi presi in considerazione. Il primo riconoscimento formale del diritto a un ambiente sano risale alla Dichiarazione di Stoccolma firmata nel 1972. A partire dal 2013, 182 dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto questo diritto mediante la loro Costituzione, la legislazione ambientale, le decisioni dei tribunali o la ratifica di un accordo internazionale. Infine, l’8 ottobre 2021 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione in cui riconosce che il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile è un diritto umano. Nonostante la risoluzione non sia legalmente vincolante, rappresenta comunque un passo in avanti verso la realizzazione della drammaticità della crisi climatica in atto e del suo impatto sulla vita delle future generazioni. In Italia, lo scorso febbraio è stato approvato il disegno di legge costituzionale che ha introdotto modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente.
Certamente questi strumenti sono buoni punti di partenza per aumentare la consapevolezza riguardo la necessità di salvaguardare la biodiversità e contenere l’impatto dei cambiamenti climatici, allo stesso tempo il fenomeno delle climate litigations rimane necessario in un contesto di emergenza che mal si accorda con l’approccio poco ambizioso adottato da molti governi.
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