Il linguaggio non è solo forma, il linguaggio è anche sostanza. Essendo uno strumento di comunicazione umano il linguaggio dà struttura di senso, condiziona e plasma il contenuto stesso: è un alleato prezioso al progresso evolutivo umano ma non è privo di insidie.
Il linguaggio, essendo una creazione umana, è pienamente immerso nel nostro ecosistema e nomina la realtà circostante. Questa condizione di relazione tra l’uomo-linguaggio-natura è ampiamente nota dalla filosofia greca socratica alla grammatica generativa di Chomsky: il dibattito sui linguaggi è ampio tanto quanto la storia dell’umanità e ancora oggi si riposiziona e contestualizza di continuo. Il linguaggio è una costruzione porosa, in evoluzione costante, che subisce forti influssi dai parlanti, dalle tendenze globali, dall’uso, dalla performatività dei messaggi stessi e dai mezzi di comunicazione che se ne servono. Ci sono numerose differenze tra la parola scritta, i testi redatti per i discorsi pubblici e la parola puramente orale ma il comun denominatore è l’essere una strategia legata al potere e che ha come fine quello di trasmettere un messaggio. Se Demostene aveva sostenuto con un’arte raffinata le sue arringhe, allo stesso modo Cicerone nelle Catilinaria è un esempio di insuperabile talento stilistico; la lista continua fino a oggi con gli uffici stampa di Obama e il suo “Yes We can” e lo spin doctor della Belva di Matteo Salvini. La comunicazione ha sempre un ruolo dominante nella società umana. Saper usare le parole giuste serve non solo a creare consensi, a vincere cause giudiziarie ma anche a indirizzare pensieri, gusti dei consumatori e a forgiare nuove idee e con esse nuove parole che sono un prolungamento, un ponte verso le società che abiteremo. Oggi quasi nessun politico scrive più i suoi discorsi pubblici come invece ha sempre fatto Winston Churchill. L’arte discorsiva di Churchill è la più nota in tempi moderni nel campo politico e molti dei suoi interventi hanno segnato la storia per risolutezza e equilibrio formale (Blood, toil, tears and sweat oppure We Shall Fight on the Beaches).
Sicuramente il linguaggio ha assunto un’attenzione sempre più crescente grazie anche agli studi strutturalisti e all’impatto della linguistica applicata sulla cultura contemporanea. Non ci sono solo i ghostwriter dei politici, o gli speechwriter di qualche amministratore delegato di punta, ma esperti di linguaggio compaiono in molti uffici stampa, per le campagne di vendita e spot pubblicitari. La parola con internet è diventata più visiva, più adatta a prodotti di consumo facili da assimilare in pochi caratteri preconfezionati e a portata di click da Twitter a Facebook alle descrizioni di Instagram.
Le teorie dell’ecolinguistica, una branca dell’ecocritica, si presuppongono di studiare l’origine delle parole e il giudizio insito che tutti i vocaboli implicano come ha ampiamente analizzato il lavoro del linguista Michael Halliday. Per esempio, in inglese tutti i termini come largo, buono, crescente e alto hanno accezioni positive perché sono abbinati a un modello o sistema di riferimento economico, il capitalismo, che conferisce un aspetto evidentemente dopante (nell’ottica della produttività) a questi vocaboli a discapito di un’effettiva conseguenza negativa di carattere ecologico sul piano dello sfruttamento. Più che analizzare i tecnicismi della linguistica, trovo interessante osservare come e quali linguaggi dell’ecologia sono più diffusi oggi e come vengono maneggiati e le loro dirette cadute orizzontali sulla percezione di massa. L’attivista svedese Greta Thunberg ha dichiarato più volte di scrivere da sola i suoi interventi e la sua linea comunicativa è quella dell’urgenza, dell’immediatezza, nessuna retorica ma accuse pesanti e facilmente leggibili. “Nella nostra casa è in fiamme” l’uso dell’immagine dell’incendio non è un presagio ma una realtà fattuale, un’emergenza che dovrebbe svegliarci dall’inattiviamo e dall’avarizia di mantenere lo status quo delle economie contemporanee e delle crescite smodate. Thunberg non usa quasi mai un lessico militaresco. Si potrebbe invece definire come biblico poichè punta sullo scontro generazionale e utilizza i suoi detrattori, che la ridicolizzano come una ragazzina e quindi non degna di parola, come parte del problema ecologico.
Greta Thunberg, essendo donna, adolescente e con la sindrome di Asperger, punta il dito su quel fenomeno del patriarcato che vorrebbe zittirla e marginalizzare le differenze proprio come Giona nella Bibbia quando cerca di avvisare i cittadini di Ninive dell’imminente catastrofe. Il “io non dovrei essere qui” pronunciato da Greta Thunberg all’assemblea dell’Onu e lo stesso di Giona che pronuncia ai cittadini in pericolo. L’eroe profetico è un outsider del sistema e non vuole andare a compiere il volere di Dio, scappa più volte alla chiamata, si allontana ostinatamente, finisce nel ventre di una balena e viene risputato sulla spiaggia a ridosso della città.
Il tono profetico dell’attivista svedese compare a più riprese nei suoi interventi “Come osate” o ancora “Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi” sono parole solenni, potenti, che ci rimandano alla mente i re della storia, i profeti chiamati da Dio, gli statisti prima di un grande assalto. Il registro ecologico di Greta Thunberg spinge sull’invettiva e sul futuro rubato alle giovani generazioni, le sue parole richiamano un vocabolario quasi sacrilego, della violabilità, delle azioni rovinose contro natura. I suoi discorsi sono sempre coerenti, in un perfetto inglese fluente e ben strutturati senza cadere in giochi metaforici, preziosismi della retorica o abusate dicotomie ecologiste (pianeta/discarica, riciclaggio/pulizia ecc). Il limite dell’uso del linguaggio ecologista di Greta Thunberg è, a mio avviso, il complesso del senso di missione profetica; spesso le sue citazioni virano nella sprezzante sicurezza dal tono minaccioso “Non vi permetterò di farla franca” oppure nella lettura dubitativa del “Io mi rifiuto di credervi” o nel più recente calco dal parlato “bla, bla, bla” pronunciato allo Youth4climate come se tutto il mondo adulto dovesse sempre e necessariamente essere fonte di frodi e alterazioni.
La retorica di Thunberg, non ponendo zone intermedie di riflessione o la prossimità degli errori e un uso spesso semplificato dell’obbedienza acritica alla scienza come fonte salvifica di tutto, non si libera mai pienamente da quelle ingenuità dettate da troppa passione e voglia di farcela che è un’energia ciecamente profetica e antilluminista. I dati che osanna sono noti da decenni ma il modo con cui Thunberg ne parla colpiscono l’opinione pubblica e scuotono le coscienze, se a volte le scelte formali di un linguaggio troppo spavaldo scoprono i nervi di una fervente attivista, sul piano del significato, urlano con coerenza una condizione di crisi sempre più necessaria.
Molto spesso sulla carta stampata, nei blog, nei post di Instagram quando si descrivono eventi legati alla crisi ecologica si usa un vocabolario militaresco. La metafora della guerra è abusata in moltissimi ambiti come quello medico, culturale e anche ambientalista. Susan Sontag nel saggio “Aids e altre metafore” analizza come il vocabolario della guerra è anti-producente per descrivere le malattie e che in generale “non c’è niente di più primitivo che attribuire un significato a una malattia”. Il linguaggio, essendo sovrastruttura, riposiziona i significati, traduce idee, converte simboli, e usare un armamentario di parole belliche ci inchioda alla performance del soldato, all’idea di giudizio che l’eroismo è sempre giusto e buono e pone zone d’ombra nel senso di colpa, non permettendo a tutte le sfumature possibili del reale di esser prese in esame.
L’intervento della filosofa statunitense è illuminante su più punti e pur essendo datato (1989) risulta ancora difficile oggi eradicare il linguaggio militaresco dai movimenti attivisti che di per sé, proponendosi come di rottura, presuppongono una lotta-azione (i militanti). Così come per l’aids o per il cancro metaforizzare la crisi climatica è di per sé sempre sbagliato e anche meno efficace per la causa stessa. Bisognerebbe usare un linguaggio della cura, della riconversione con la terra, un vocabolario che inoculi una terminologia dell’equilibrio, della pace e della condivisione. A livello inconscio non ci rendiamo conto di quanto le parole riescano a condizionare le nostre azioni e i nostri pensieri ma, focalizzandoci un attimo, possiamo notare come la costruzione dei linguaggi avvenga per fasi. Un primo momento è il riconoscimento nella vita delle donne e degli uomini della necessità di trovare nuove parole, la presa di coscienza di nominare le problematiche, di descrivere un fenomeno, assegnando dei nomi-contenitore, e creando o cercando le strutture basilari: le parole che possono veicolare al meglio i messaggi. Solo così poi attraverso un vocabolario (nuovo o risemantizzato) possiamo comunicare con gli altri e quindi sarebbe sempre auspicabile che la selezione dei linguaggi dell’ecologia fosse la più attenta e inclusiva possibile.
L’interdisciplinarietà sicuramente ha il vantaggio di usare più saperi per risolvere questioni complesse come la crisi ambientale ma parlando strettamente di linguaggio l’interazione tra discipline diverse porta con sé delle problematiche di risemantizzazione. I movimenti ecologisti si schierano al fianco di altri movimenti dei diritti civili come il Black Lives Matter e questa sinergia di contenuti genera collaborazioni proficue anche in termini di comunicazione. Pensiamo allo slogan della tragica morte di George Floyd #icantbreathe (io non posso respirare) che dall’indicare l’oppressione sistemica dei bianchi sulla comunità afroamericana ben si risemantizza in modo globale sull’incapacità di respirare a causa della crisi climatica in atto. Questo processo non può e non deve funzionare per tutta la terminologia dell’ecologia perché si rischierebbe di parlare di Natura e di pianeta Terra in maniera globale senza però pensare alle persone che lo abitano e alle annesse disuguaglianze. Utilizzare il lessico antirazziale per descrivere la crisi climatica comporta numerose criticità perché di per sé molti termini del vocabolario decoloniale sono problematici e frutto di una risemantizzazione costante in un atto di revisione. In articoli di giornali e blog online ho letto più volte la parola “schiavo” abbinato al pianeta terra per indicare lo sfruttamento produttivo: questo esempio è pienamente esplicativo di quanto la questione del traslare un lemma già di per sé contestato dai linguisti ma anche dalle comunità marginalizzate sia spinosa. Un pianeta “schiavo” indica una condizione statica e drammaticamente anche storica, per esempio, uno stato di identità, designa cosa è, impone una subalternanza strutturale come situazione d’essere che a livello pratico è errata se abbinata al nostro pianeta. Dire per esempio un pianeta “schiavizzato” pone l’accento più su la condizione perpetrata dall’umanità sulla natura, mette sotta accusa il modo arbitrario di sfruttare il pianeta al proprio vantaggio e quindi negativizza l’aspetto umano in favore di quello della natura di per sé come neutro. “Schiavizzare” e considerare il pianeta come una risorsa da sfruttare è controproducente per la specie umana e la biodiversità così come la conosciamo oggi e come la ospita questo complesso ecosistema Terra. L’aumento dell’effetto serra non è un caso isolato nella storia di vita del nostro pianeta, più volte ha contribuito nell’estinzioni di massa per agevolare o interrompere una linea evolutiva; quindi, per il pianeta Terra “essere sfruttato” dall’attività antropica genera unicamente l’aumento più rapido di CO2 e potrebbe semplicemente essere un’altra fase geologica. L’umanità è solo un piccolo tassello della storia del pianeta e l’innalzamento delle temperature potrebbe decretare la fine della nostra specie non quella del pianeta intero quindi anche in quest’ottica si parla di crisi climatica sempre dall’angolo visuale della nostra società umana e dell’antropocene.
Le parole non sono mai involucri vuoti, ma sono particelle vive che innestano cambiamenti e gradualmente portano a alterare angoli visuali, a relativizzare e ampliare gli scenari. Dalle parole profetiche di Greta Thunberg, agli eserciti bellicosi degli attivisti, alle risemantizzazioni dei vocaboli antirazziali ci dovremmo rendere conto che i nostri linguaggi sono una piccola porzione marginale di tutti i suoni che abitano questo pianeta. Se è vero che occupiamo l’era dell’antropocene ci farebbe bene tenere sempre a mente che il nostro pianeta ruota attorno a una stella in una regione periferica dello spazio. Farebbe molto meglio pensarci come probabili e momentanei, semplici comparse, ospiti fortunati. Così le nostre parole perderebbero quell’arroganza tipicamente umana, quell’ossessione allo standard, e si riposizionerebbero al pari delle altre, un suono tra i suoni, umani e non umani, un modo di essere tra infiniti altri. Ci servirebbe allora un linguaggio dell’ecologia fatto di parole di cura, riconversione e speranza.
Photo credit: Marcus Ohlsson
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