La crisi climatica sembra essere una crisi di immaginazione: non sappiamo leggere i dati che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi. Eppure sarebbe semplice: la Terra non ha bisogno di noi. Noi invece vogliamo redditi di breve durata, vogliamo sfruttare le risorse comuni per un interesse effimero, vogliamo che il nostro sia lo Stato migliore, e non ci interessa della comunità globale, né tolleriamo la redistribuzione delle ricchezze, perciò la civiltà industriale è insostenibile. La scienza dei cambiamenti climatici è contro-intuitiva: ci offre solo intrecci di cause e probabilità, ipotesi e modelli, ma non avere certezze e predizioni sicure ci spaventa. Il futuro, che in realtà è un presente rimandato, richiede invece immaginazione, azione, capacità di visioni organiche e a lungo termine, rivendica una giustizia sociale globale intergenerazionale e un altruismo verso le altre specie. Ma tutto ciò richiede una scelta che non abbiamo il coraggio di perseguire.
Siamo tutti consapevoli di essere un punto infinitesimo nell’universo, ma quando si parla del pianeta Terra ci sentiamo padroni del mondo: noi possiamo risolvere qualsiasi problema, inventare una macchina, sviluppare una nuova tecnologia e il “problema” si risolve. No. Purtroppo non è così. Lo sappiamo, ne parliamo spesso, ma non ne siamo intrinsecamente consapevoli. Siamo una specie capace di distruggere in un attimo ciò che la natura ha impiegato millenni per costruire. Per noi la natura è un frutteto, ma non è così, l’agricoltura non è un regno bucolico, è uno strumento artificiale per far produrre agli ecosistemi un’eccedenza rispetto alla necessità del singolo. Finora il progresso è capitalizzazione di ogni cosa buona da consumare. È stato così con la domesticazione di piante e animali, che ha avuto e ha un impatto irreversibile: dall’inizio dell’agricoltura ad oggi, il numero totale di alberi si è dimezzato. Non ci sono ostacoli geografici e ambientali che hanno impedito all’uomo di progredire, tranne forse le distese dei ghiacci ai poli. Accecati da questa illusione siamo evoluti allontanandoci sempre di più da una visione ecosistemica del nostro legame con la Terra, abbiamo alimentato una concezione prometeica della Natura contro di noi, ma nonostante ciò non siamo riusciti a emanciparci dai cicli naturali. Il cambiamento climatico antropico non è un predizione, è il presente. La nostra incapacità di vedere a lungo termine, quella mancanza di lungimiranza che ci fa votare chi ci abbassa le tasse della benzina nel qui ed ora, è il modo più intelligente di ragionare dell’homo sapiens. Al contrario e contro-intuitivamente, la nostra esistenza andrebbe relativizzata, non per svalutarla, ma per guardarla con occhio sistemico, attraverso l’ecosistema in cui siamo inseriti e del quale, per ora e per molto tempo ancora, non abbiamo un’alternativa.
La biomassa, ossia il totale della materia vivente, è costituito dal 83% di piante, i funghi sono l’1,8% e gli animali, quindi gli insetti, i pesci, i mammiferi (tra cui noi) lo 0,03%, equivalente a 0,2 Gt, il resto sono microrganismi, batteri, virus. Va sottolineato che gli uomini di quello 0,03% sono meno dello 0,001%: pesiamo appena 0,06 Gt. La vita sul pianeta è quindi vegetale, è chiaro che senza piante non vivremmo: non avremmo da mangiare e non respireremmo. Le piante sono la base della nostra sopravvivenza, sono le uniche capaci di trasformare l’energia luminosa in energia primaria, chimica, che tutti possono utilizzare. Eppure decenni di studio sulla fotosintesi clorofilliana, non hanno impedito all’umanità di produrre in 150 anni materiali sintetici fino a superare nel 2020 il peso dell’intera vita biologica: oggi la plastica e i suoi derivati sintetici (8Gt) pesano il doppio della biomassa animale (4Gt) mentre quello degli edifici e delle infrastrutture (1,100Gt) ha superato quello delle piante (900Gt). E se mettiamo sulla bilancia i mammiferi terrestri, il 67% sono animali allevati per il nostro consumo, il 30% sono esseri umani e solo il 3% è fauna selvatica.
A chi questi dati fanno sentire ancora più forte e invincibile in quanto essere umano, ricordo Darwin, per cui l’evoluzione non premia il più forte ma il più adatto. È vero, noi non sappiamo quale sia il più adatto, siamo da così poco sulla Terra, ma nonostante questo abbiamo una nostra era geologica che parte dal picco di bombe radioattive lanciate negli esperimenti del 1965, sicuramente non per scopi pacifici. Intanto siamo i primi responsabili della nostra possibile auto-estinzione, che è una tragedia per il semplice fatto che ne conosciamo i rischi e potremmo evitarla. Le proiezioni di questo modello cinico ma plausibile dimostrano inoltre che non siamo indispensabili, le piante si, noi no. Ed è sempre più concreto il rischio che, quando, tra circa 400 milioni di anni la nostra galassia entrerà in collisione con la galassia di Andromeda e per la Terra sarà tutto finito, noi saremo già estinti da un bel pezzo.
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