Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di un fenomeno di consumo preoccupante, il fast fashion, un sistema di produzione in serie di abiti a basso costo e talmente veloce da seguire le mutevoli tendenze della moda (dati ONU pubblicati nel 2019 registrano una crescita esponenziale nella produzione mondiale di indumenti).
Le ripercussioni umane e ambientali di questo business sono molto gravi e non possono essere trascurate. Per questo motivo la sensibilizzazione verso tali tematiche è cresciuta a tal punto da mobilitare aziende, consumatori e istituzioni.
Partiamo dalla violazione dei diritti dei lavoratori: per trovare manodopera a poco prezzo le aziende fast fashion esportano le loro fabbriche nei paesi economicamente più deboli, alimentando un tipo di sfruttamento che non tiene conto né delle esigenze salariali né della qualità della vita.
Per quel che riguarda l’impatto sull’ambiente, la moda veloce immette rapidamente sul mercato un ingente quantitativo di abiti difficile da smaltire, proprio perché realizzati con materiali sintetici che rimangono a inquinare terreni, corsi d’acqua e atmosfera.
L’industria dell’abbigliamento con la sua scarsa cura per i processi produttivi determina circa il 20% dello spreco dell’acqua; in più, gli scarti dei vestiti impiegano centinaia di anni a biodegradarsi.
Le microfibre di plastica, infatti, si depositano nei bacini d’acqua, mentre le emissioni di carbonio, generate durante la lavorazione, provocano grossi danni all’ambiente. La situazione appare ancora più fosca se si considerano i problemi dovuti all’uso dei coloranti tessili, estremamente economici e altamente nocivi.
Combattere gli impatti negativi del fast fashion è possibile non solo attraverso buone pratiche di produzione, rispettose dell’ambiente e dei lavoratori, ma soprattutto attuando un cambiamento nelle abitudini dei consumatori, chiamati a scegliere abiti realizzati con tessuti naturali ed ecologici o a rivitalizzare capi difettosi e vintage.
L’utilizzo di materiali di recupero per la realizzazione di capi che, al termine della loro vita, possano essere nuovamente riciclati per la produzione di altri prodotti, risulta una delle soluzioni più innovative, in particolare per il settore della moda. È il caso di due aziende bergamasche, RadiciGroup e DKB, che hanno creato una tuta da sci interamente in materiale riciclato e ancora riciclabile, a chilometro zero. Il filato in questione si chiama Renycle e deriva dal riciclo meccanico della poliammide, non contiene sostanze chimiche tossiche ed è conforme agli standard del riciclo globale.
Infine, le nuove normative europee sull’economia circolare stabiliscono l’obbligatorietà della raccolta differenziata dei rifiuti tessili entro il 2025, in Italia già dal 2022. Questo comporterà un impegno maggiore per la raccolta degli indumenti da parte delle amministrazioni e dei cittadini, e sarà necessario sviluppare nuovi modelli di gestione per rendere il servizio sostenibile da tutti i punti di vista.
Fondamentale sarà, poi, l’organizzazione e la trasparenza per recuperare quanti più abiti possibili, evitando di dare agio alla criminalità organizzata di infiltrarsi e trarre profitto da progetti nati per fini ambientali e sociali.
Anna dice
Brava professionale e coraggiosa come sempre
Anna dice
Brava,professionale e coraggiosa come sempre