Difficile pensare ad un mare senza pesci, essendo uno degli habitat più popolato sulla terra.
Eppure, come riportato dalla rivista Science, le zone ipossiche, ossia senza ossigeno tali da non permettere la vita sono in continuo aumento.
In particolare, dagli anni ’60 ad oggi sarebbero aumentate del doppio ogni decade, portando all’allarmante cifra di 245 mila km quadrati di suolo eutrofizzato (per intenderci, la superficie del Regno Unito).
La causa è ancora una volta da considerarsi di origine umana.
In primo luogo vi sono i fertilizzanti ed i prodotti chimici, derivanti dall’agricoltura, dagli allevamenti ittici intensivi e dalla maricoltura: i primi gestiti in enormi vasche con riciclo dell’acqua, i secondi in lunghe celle poste lungo la costa direttamente in mare.
Le due modalità di acquacoltura hanno entrambe il difetto di convogliare in zone circoscritte la totalità di feci e trattamenti antibiotici ai quali sono sottoposti gli animali, rendendo pericolosamente inquinate le acque circostanti.
In secondo luogo vi è la pesca, diventata sempre più insostenibile per i tempi e i modi in cui è praticata.
Non viene lasciato spazio sufficiente agli ecosistemi di riformarsi, rischiando un danno irreparabile alla biodiversità soprattutto per la cosiddetta “pesca collaterale” causata dalle reti a strascico, equivalente al 40% circa del pescato totale annuo.
Entrambi i fenomeni portano alla proliferazione delle alghe che morendo sprofondano sul fondale marino e vengono decomposte dai batteri che consumano l’ossigeno disciolto in acqua, eutrofizzando le zone.
Inoltre i microbi che proliferano in condizioni di anossia producono tipicamente grandi quantità di ossido di azoto, un gas serra i cui effetti sono 300 volte più devastanti di quelli del biossido di carbonio.
Il sovrasfruttamento degli oceani e della sovraproduzione ittica ha già raggiunto cifre allarmanti per il pianeta: la FAO nel 2015 ha dichiarato che il 33% delle catture globali è stato classificato come “biologicamente insostenibile”, valore che raggiunge l’80% nel Mediterraneo, definito “il mare più sfruttato al mondo”.
Il trend è confermato da un aumento pro capite del consumo di pesce, passato da 20,9 kg a 30 kg annui, nei soli ultimi dieci anni, dovuto ad una riduzione dell’utilizzo della carne rossa al quale viene spesso preferito come fonte proteica nelle diete.
Il fenomeno purtroppo è destinato a crescere fin tanto che la domanda resterà alta: si prospetta un incremento compreso tra l’1% ed il 7% delle zone morte entro la fine del secolo.
Inoltre, in molti paesi la pesca è completamente svolta senza controlli, per cui non vi sono dati sicuri o certezze sui limiti imposti e rispettati a livello nazionale.
È sorprendente come un’altra volta le colpe siano da attribuire all’essere umano su conseguenze pericolose e prevedibili.
Lascia un commento