Negli ultimi 50 anni la temperatura terrestre è aumentata di quasi 1 grado di media.
Il livello del mare è salito a causa dello scioglimento dei ghiacciai.
Si parla ogni giorno dei cambiamenti climatici derivanti dall’attività umana sulla Terra, l’inquinamento delle città, le industrie, i combustibili fossili.
Le soluzioni proposte sono sempre le stesse: vai al lavoro in bicicletta, chiudi il rubinetto quando ti lavi i denti, scegli una macchina elettrica.
Tutto giusto, ma se non bastasse?
Se non fossero solo i combustibili fossili gli artefici di questo decadimento della natura?
E soprattutto, come mai non si sente mai parlare di allevamenti intensivi?
L’allevamento intensivo nasce nel XX secolo per far fronte alla crescente richiesta di prodotti di origine animale riducendone drasticamente i costi e i tempi della produzione.
Grazie all’allevamento si riusciva ad allevare sempre un maggiore quantitativo di animali in spazi ridotti, velocizzando le tempistiche e riducendo i rischi derivanti da fattori ambientali.
Il risultato di questa nuova tecnica nel primo periodo fu una produzione di massa che permise alla popolazione di poter avere un accesso sempre più diffuso ad alimenti prima lontani dalla quotidianità, modificandone i sistemi alimentari, come dimostra la scomparsa della dieta mediterranea, prima caratterizzata da un consumo centellinato della carne (15-20kg annui) e di latticini spesso costituiti da una tazza di latte o yogurt, ora diventata iperproteica (si raggiungono circa 90kg annui per il consumo della carne) e ipercalorica, con un utilizzo giornaliero di formaggi stagionati.
Ciò che ha portato la situazione a degenerare totalmente, è stata la continua crescita della popolazione, la quale ha portato la curva di domanda di prodotti di origine animale a salire alle stelle: dal 1970 ad oggi siamo più che raddoppiati (da 3,5 a 7,8 miliardi di persone).
Questo ha portato gli allevatori a prediligere sempre più un allevamento industrializzato rispetto a quello tradizionale.
Le conseguenze di questa scelta sono del tutto eterogenee: emissione di gas a effetto serra, autori dei cambiamenti climatici; deforestazione nell’America del sud per le colture di mais e soia, utilizzate per foraggiare gli allevamenti, che ora stanno mettendo a rischio la biodiversità del pianeta; consumo eccessivo delle falde acquifere, dal 50% al 75% utilizzate nel settore zootecnico, con un impatto senza precedenti sulle fonti primarie di approvvigionamento di acqua dolce per la popolazione; inquinamento dei mari, derivante sia dagli allevamenti ittici intensivi, che dallo smaltimento delle deiezioni degli animali, sempre più concentrati in determinate aree geografiche, i quali non permettono un corretto assorbimento del terreno, defluendo nei corsi d’acqua superficiali causandone eutrofizzazione e riduzione del tenore di ossigeno nell’acqua.
Nessuna fonte inquinante ha un impatto così diversificato, con delle ripercussioni a tratti catastrofiche.
Negli ultimi 30 anni sono stati deforestati 420 milioni di ettari di terreni, più o meno come la superficie dell’intera Unione europea.
Negli ultimi 70 anni le zone morte oceaniche sono quadruplicate.
Negli ultimi 10 anni le emissioni di gas serra sono cresciute a una velocità doppia rispetto a quella registrata negli ultimi 30 anni.
Quanto ancora deve passare prima che l’uomo si renda conto che ogni sua azione ha un costo?
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