Essere in grado di prevedere quale sarà il valore futuro di un asset è il lavoro di qualsiasi analista finanziario. Già da alcuni decenni l’interesse degli investitori, piccoli o grandi che siano, si è focalizzato su investimenti sostenibili, prevedendo, ancora una volta, che il futuro della finanza e del mondo intero dipendesse dall’attenzione riservata all’ambiente circostante.
Universalmente riconosciuti con l’acronimo ESG, questi criteri fanno riferimento a tre concetti magistralmente fusi in una sigla evocativa: Environmental, Social e Governance.
Le singole società vengono analizzate da agenzie di rating specializzate – MSCI e Refinitiv sono solo alcune – il cui lavoro è di assegnare, alla fine del processo di analisi, un giudizio sul livello di impegno e commitment verso i criteri ESG da parte della società esaminata.
Scomponiamo, adesso, l’acronimo ESG e cerchiamo di capirlo meglio.
Con il primo termine è chiaro il riferimento al fattore ambientale: cambiamento climatico, utilizzo di risorse naturali e inquinamento sono le classi principali prese in considerazione.
Passando al secondo termine, Social, l’attenzione è focalizzata sul capitale umano e dunque su temi come la sicurezza sul lavoro, la salute e lo sviluppo di reti sociali. Volgendo lo sguardo all’impatto che l’impresa produce all’esterno, in questa categoria vengono fatti rientrare l’impegno mostrato verso la sicurezza e la qualità dei prodotti e dei servizi commercializzati. A seconda della valorizzazione che ciascuna società sotto analisi dà ai vari elementi discussi, il punteggio per la categoria sul sociale assegnatogli sarà più o meno alto.
L’ultimo termine è Governance: lo sguardo qui è rivolto a caratteristiche interne alla società, come la sua struttura e la connessa chiarezza informativa, le pari opportunità di genere nei compensi a livelli esecutivi e la trasparenza nella contabilità sociale e nella tassazione. Una forte etica aziendale viene valutata in positivo, come anche il rispetto delle pratiche anticoncorrenziali e l’assenza di casi di corruzione e di instabilità aziendale.
Viste le metriche di giudizio usate per assegnare un punteggio ESG alle società, entriamo più nel merito di quali sono le strategie usate dai gestori per selezionare gli investimenti.
Premessa: sempre più spesso le scelte di consumo di molti individui e famiglie si basano esclusivamente sul basso impatto ambientale di un prodotto e sulla reputazione della società produttrice. Km 0, plastic-free, differenziabile al 100%… sono tutti termini entrati nel vocabolario comune. In sostanza, la sostenibilità ambientale non è più un optional, ma una scelta ragionata.
Allo stesso modo, gli investitori istituzionali (Società di Gestione del Risparmio, fondi pensione, banche e altri soggetti che investono grandi patrimoni) si sono specializzati in investimenti sostenibili. Strategia non nuova, già offerta sul mercato da alcuni decenni, ma che ha assunto una posizione rilevante negli ultimi anni, con l’aumento della consapevolezza ambientale e sociale, individuale e collettiva.
Esistono diverse tipologie specifiche di strategie che il gestore può mettere in atto quando decide di investire in società “responsabili”.
Banalmente, come se delegassi tua madre (il gestore, nel nostro esempio) a fare la spesa al posto tuo e le chiedessi di comprare solo prodotti che abbiano ricevuto un Premio Quality Award, non specificandone le marche.
In sostanza, una guida (detta operativamente strategia) che il gestore deve sempre tenere a mente nel scegliere le società in cui investire. L’esempio evocativo del supermercato più si avvicina alla strategia best-in-class. Essa prevede che il gestore selezioni diligentemente e inserisca nel proprio paniere degli investimenti solo le organizzazioni che nel loro campo possiedono il punteggio ESG (assegnato dalle agenzie di rating sopra citate) più elevato tra il gruppo di società comparabili. Insomma, solo la crème de la crème di un settore.
Un’altra strategia molto utilizzata in combinazione con altre è il negative screening. In questo caso si tratta di escludere interi settori o società che vanno contro i criteri ambientali, sociali o di governance, come ad esempio società che producono o che commercializzano tabacco o, peggio, armi.
Questi sono solo due delle sette strategie principali su cui può basarsi un fondo di investimento. Non mutuamente escludibili e combinabili fra loro, queste strategie forniscono una guida operativa per il gestore e un fattore di differenziazione per i fondi che attraggono l’attenzione di investitori attenti alle tematiche ESG, con forte coscienza morale.
Questi fondi possono fare la differenza nel rendere il nostro un mondo migliore?
Se si pensa all’ammontare di Asset Under Management (AuM), ossia ai miliardi e miliardi di dollari investiti in fondi (di investimento, pensione…) in giro per il mondo, forse sì. Se tutti, individui e istituzioni, prendessero coscienza del problema, e scegliessero di investire solo in fondi sostenibili forse ci sarebbe una più alta probabilità che la completa transizione ecologica, tanto ambita e discussa, diventi una realtà più vicina. Le società sarebbero infatti incentivate a prestare maggiore attenzione alle problematiche quali inquinamento, sfruttamento delle risorse naturali… Non va dimenticato che il rendimento offerto da questi fondi non è da meno rispetto a fondi tradizionali. Si avrebbe, dunque la possibilità di prendere due piccioni con una fava: elevati rendimenti, da una parte, e un aumento nel benessere dell’intera comunità, dall’altra.
Secondo un articolo di Morningstar di inizio anno, il 2020 è stato un anno particolarmente importante per i fondi ESG. In Europa, gli AuM sono raddoppiati rispetto all’anno precedente, raggiungendo quota 233 miliardi di euro. Che sia questo indizio dell’inizio di una nuova era più sostenibile?
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