La letteratura e l’ecologia possono, e devono essere interpretate come discipline sempre più legate a doppio filo, sia per un’urgenza di natura temporale, vista la portata catastrofica del riscaldamento globale, sia per una forte similarità del ruolo sociale, culturale e immaginifico che ricoprono. Definendo con il termine ecologia la scienza che studia le relazioni che intercorrono tra gli organismi e il loro ambiente, si nota subito che l’analisi di questa disciplina pone l’osservazione sul ruolo umanità-natura che altro non è che un rapporto millenario di asimmetrie di potere. La letteratura per sua natura intrinseca libera l’immaginario, e attraverso storie di altrз e processi di autorappresentazione cerca di problematizzare la realtà, di porre interrogativi, spesso senza dare risposte, illumina quei coni d’ombra, quelle fratture endemiche dei sistemi di potere che contraddistinguono l’umano in quanto essere relazionale. Da qui si comprende bene che la letteratura si sia nutrita della materia ecologica per liberare le sue critiche feroci, per insinuare attraverso la narrazione uno sguardo sull’altrə e sul mondo.
Gli esempi di letteratura di questo tipo affondano le radici già in testi antichissimi come in quelli biblici, nei Salmi, in Cartesio, negli scritti romantici. In questi contesti potremmo definire le analisi ecologiche in senso lato e solo in relazione alla posizione di asimmetria tra umanità/natura: l’esigenza di dominare lo spazio e di modificarlo oppure venerarlo in quanto vergine e primigenio.
Letteratura ecologica vera e propria è però fiorita solo in epoca moderna e a ridosso delle rivoluzioni industriali, quando l’inquinamento ha assunto il suo volto luciferino e piegato gli ecosistemi a favore dei profitti capitalistici.
In epoca contemporanea la lente ecologista ha assunto una più larga diffusione in quanto struttura di senso che mette in discussione i rapporti tra società, cultura e economia in relazione all’ambiente. Focalizzandoci sul Novecento gli esempi più noti di un senso ecologista nella letteratura descrivono le donne e gli uomini di fronte alla natura, tra un desiderio antitetico di unione e separazione, di dominio e libertà; che prende il nome di letteratura industriale come in Pasolini, Ottieri, Sarchi, Calvino e altri.
Nel celebre intervento sul Corriere della Sera del 1975 Pasolini con la sua metafora delle lucciole pone l’accento sulla fine del modernismo e l’inizio di un nuovo periodo della civiltà, ossia il post-modernismo. Questo passaggio per il poeta friulano è doloroso, tanto da portare alla morte reale e figurata delle lucciole, piccole creature che si illuminavano in una natura libera dall’ingerenza nevrotica di un falso benessere senza fine. L’accusa pasoliniana è di natura ecologica, filosofica, antropologica che gioca sul rimando di selvatichezza aurea e impersonalità artificiosa industriale, il poeta declina sul malinconico dicendo che avrebbe ceduto tutte le Montedison (emblema delle multinazionali) purché fosse rimasta in vita una sola lucciola. L’immagine letteraria del coleottero luminescente non è un caso isolato e spesso rievoca un mondo preindustriale, dove l’inquinamento luminoso era poco sviluppato e la natura poteva dischiudere le sue meraviglie in piena libertà.
Compare un passaggio sulle lucciole anche nel Segreto di Clarice Lispector, anche se non apertamente di natura ecologista; il riferimento rimanda alla bellezza di un mondo intatto, di una natura pregressa e selvatica che solo in un ecosistema incontaminato può e deve svelare i suoi segreti. L’interrogativo che si pone la scrittrice brasiliana è se ci accorgiamo delle lucciole quando compaiono oppure quando scompaiono, e insinua il dubbio che molto spesso ci rendiamo conto della bellezza celata della natura nel momento stesso della sua scomparsa. Il parallelismo con la vita umana è lampante, dove molto spesso ci ricordiamo della “luce” di un’esistenza e dei meriti proprio in punto di morte, nel momento della fine. Altro filone che si interseca alla letteratura ecologista è proprio quello apocalittico, il genere distopico e quello futuristico con scenari più o meno probabili (ecothriller).
Di certo ci vorrebbe un linguaggio di riconversione con la terra, di riappropriazione di Natura contro il dilagare dell’umano e della sua tecnica, ci servirebbe una nuova grammatica per poter prima comprendere e poi esprimere un mondo di conservazione di cui abbiamo disperatamente bisogno.
Proprio questo è quello che cerca di fare la poetessa Mariangela Gualtieri con le sue liriche popolate da alberi millenari, dal dolore degli animali sfruttati, dal terrore di perdere la bellezza della natura e dal bisogno intestino di tutelarla ad ogni costo. La poesia che può guarire, che può aprire le coscienze e innescare un mutamento e cito “Non siamo così potenti come crediamo, da far finire il mondo”. La Gualtieri con tinte impressioniste punta il dito alla bulimia degli spostamenti, delle velocità assurde, del consumo senza freni, di un capitalismo che si autoalimenta distruggendo e schiavizzando. Nella poesia “nove marzo 2020” ci ricorda proprio che un virus, obbligandoci a fermarci, ci ha rimproverato il nostro “agitare ogni ora – farla fruttare”. In un’altra scrittrice italiana, Anna Maria Ortese, il tema ecologista compare in più interventi contenuti in “Piccole persone” e nella raccolta “Veglia e sonno” e ha sempre un tono catartico, accusatorio, moraleggiante. La narrativa della scrittrice è complessa, imperscrutabile, a tratti onirica e privilegia una lettura più tematica e a macro-sequenze che logico-didascalica. La bellezza e il valore dell’autrice si costruiscono su un dualismo: da una parte l’onnipotenza letteraria del sogno, dell’invenzione e dall’altra la fragilità umana della finitudine, della manchevolezza, della provvisorietà. Questi opposti così complementari si ritraducono anche in una scelta di denuncia ecologica, che da un lato addita la smania dell’umanità contemporanea allo sfruttamento senza indugio, dall’altra difende con forza la precarietà di un mondo essenziale e vitale come quello della natura. Una letteratura ecologista asistematica, quella dell’Ortese, che si scaglia spesso e a più riprese contro la letteratura sociale, politica, contro lз scrittorз stessз suз amicз, contro il capitalismo e la modernità in generale senza però riuscire a dare risposte alternative. Il gusto tipicamente irrazionale della sua invettiva ricorda in parte anche le descrizioni ferine della Lispector e allo stesso modo affida alla parola ultima, piena spesso di controsensi, di fraintendimenti, di approssimazioni, un ruolo più che pratico squisitamente estetico, dove la letteratura cura e assolve in chiave lirica, ricreando domande all’infinito in uno specchio di rimandi.
La letteratura ha anche il limite di scadere nel contraddittorio e di edulcorare la praticità in favore della fuga, dell’emozione, della struttura narrativa di per sé senza una logica di riconversione o una volontà di attivismo. Queste lezioni letterarie potrebbero servire anche a tuttз coloro che difendono con estremismi e radicalismi vari le cause ecologiche senza un filtro critico a rendersi conto che molto spesso più che la risoluzione di un problema siamo alla ricerca di qualcosa in cui credere, di un vessillo d’appartenenza da agitare, di unǝ nemicǝ da definire e additare. Ma quando, come nella Lispector, Ortese o Gualtieri, le ombre che tanto temiamo delз altrз si addensano proprio in noi stessз, allora la realtà ci appare doppiamente complicata e scegliere da che parte stare non è mai così semplice.
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