Chi non ha mai fatto, anche solo per poterlo raccontare agli amici, un brunch a base di avocado toast, o provato una poke bowl per poter fingere di essere a Honolulu?
Da qualche anno a questa parte, l’avocado è diventato il re della cucina alternativa e hippy-chic, monopolizzando le ricette fit e divenendo metonimia di una dieta sana, equilibrata e instagrammabile (perchè sì,è anche molto fotogenico).
Le ragioni di tale successo sono dovute a molteplici fattori: in primis, alle proprietà di questo alimento, che infatti risulta essere più nutriente rispetto ad altri cibi, vista l’elevata percentuale di vitamine, fibre, sali minerali e soprattutto grassi buoni, che portano ad un abbassamento del colloquialmente denominato “colesterolo cattivo”(LDL) e l’innalzamento di quello “buono” (HDL). Un’altra componente che gioca un ruolo fondamentale è la moda che, si sa, rappresenta un irresistibile richiamo della foresta. Così come l’abbigliamento, anche il cibo è soggetto al giogo delle tendenze, per cui se un alimento è gettonato diventerà inevitabilmente popolare. In questi casi, si assiste al cosiddetto fenomeno di “gentrificazione del cibo”, dall’inglese “gentry”, “nobiltà”, che porta ad un innalzamento dei prezzi dei cibi più in voga e ad una conseguente esclusione delle fasce meno abbienti dal consumo di tali prodotti (un esempio nostrano è quello della pizza gourmet, in cui non soltanto la pasta è lievitata, ma anche i prezzi).
Tuttavia, il problema principale è che, sebbene l’avocado sia considerato dai più un frutto e dunque, viste le sue origine vegetali, innocuo e addirittura sostenibile, in realtà non è esattamente così. Anzi, si potrebbe azzardare che “avocado” accanto alla parola “sostenibile” rappresenti un ossimoro. Intanto, la sua coltivazione richiede un’ingente quantità di acqua: al fine di ottenere 1 kg di avocado ne occorrono ben 2000 litri (per farsi un’idea, la stessa dose di pomodori ne necessita 200). Per ridurre i costi di produzione su larga scala vengono poi adoperati, in paesi extraeuropei non soggetti alle nostre regolamentazioni, fertilizzanti chimici scadenti, che oltre a rappresentare un rischio per la salute dei consumatori inquinano aria, falde acquifere, suolo e producono penuria di fauna selvatica e flora. Penuria causata però non solo dalle sostanze sintetiche, ma anche dal fatto che, essendo quello dell’avocado un mercato proficuo, in molte zone alcune coltivazioni sono state completamente abbandonate e sostituite con quella più redditizia. Dunque, all’esosità in termini acquiferi si aggiunge il problema della monocoltura, che crea un maggiore stress idrico rispetto ad una situazione di varietà di coltivazioni.
Inoltre, il repentino incremento della domanda di avocado degli ultimi anni ha ovviamente causato un vertiginoso aumento della sua produzione, portando alla trasformazione di molti terreni incontaminati in coltivazioni intensive: si stima che questo fenomeno di deforestazione abbia cagionato una perdita di 690 ettari all’anno di terre vergini. Il problema dell’acqua è particolarmente sentito in alcuni Paesi come il Cile: infatti, in seguito all’approvazione del “codice dell’acqua” nel 1981, essa è stata privatizzata diventando così un qualunque bene di mercato, legalizzando perciò quello che è, di fatto, un sistema di sottrazione dell’acqua. Il modus operandi è il seguente: le imprese comprano territori desolati (consideriamo che la densità abitativa del Cile ammonta a 21 persone per chilometro quadrato, a fronte delle 206 italiane), vi estirpano tutto e poi piantano avocadi a volontà. A ciò va ad aggiungersi il fatto che i fenomeni di usurpazione dell’acqua ed estrazione non autorizzata, che provoca siccità irreversibile, sono soventi. E come non menzionare l’inquinamento causato dal trasporto? Ricordiamoci che questo è un frutto che gradisce un clima tropicale o subtropicale, per cui la sua coltivazione si concentra prevalentemente in aree prossime all’Equatore, soprattutto in Centro e Sud America.
Ma i principali consumatori sono chiaramente i paesi ricchi, che distano migliaia di chilometri dalle piantagioni peruviane o cilene, per cui è necessario trasferire i raccolti tramite navi cargo dotate di celle frigorifere (l’avocado si conserva a una temperatura di 5 gradi): benzina e idrocarburi e voilà, il buco nell’ozono è servito. Ultimo, ma non per importanza,è il fatto che, vista la fruttuosità di questo business, la reazione dei narcotrafficanti non si è fatta attendere: anche qualora la produzione non sia direttamente gestita dai vari cartelli, è comunque quasi sempre richiesto il pizzo agli agricoltori.
Dunque, la soluzione è smettere di mangiare avocado? Come sempre, est modus in rebus: non è necessario ricorrere a soluzioni estreme, ma è sufficiente consumarlo in maniera coscienziosa di modo che, anche se non proprio sostenibile, se non altro non sia eccessivamente nocivo per il nostro Pianeta. Come? Semplicemente, rispettando i tempi di stagionatura del frutto, che cambiano a seconda della varietà prescelta (la tipologia Hass, che è quella più diffusa, matura da ottobre in poi). Infine, è consigliabile optare per un avocado di provenienza nostrana, coltivato prevalentemente in Sicilia e Calabria, in modo da assicurarsi che sia più fresco e trattato con sostanze legali nella Comunità Europea.
Seguendo questi consigli, riuscirete a fare un bel (passatemi il termine) “colpaccio”: sosterrete l’economia del Belpaese, ridurrete l’impatto del vostro beniamino e, soprattutto, non dovrete rinunciarvi!
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