Il greenwashing è quella pratica scorretta del marketing che promuove un’azienda sotto un profilo di sostenibilità ambientale, attraverso campagne più o meno invasive di corporate social responsibility che non rispecchiano il reale funzionamento dell’azienda.
Dichiararsi eco-friendly ha bisogno di comprovate certificazioni ambientali, come quelle che attestano il contenimento delle emissioni dei gas serra o la messa al bando di sostanze nocive per la colorazione dei tessuti o di materiali non riciclabili per packaging, e così via. La green economy ha anche dei lati oscuri: le aziende sono molto tentate dallo sfruttare l’onda mediatica di una sensibilità più ecologica dei clienti per riuscire a ottimizzare le vendite ma, se gli intenti nobili non si traducono in azioni concrete, l’azienda promuove una brand identity non solo non veritiera ma sanzionabile dall’antitrust. Per sviare questo problema si dovrebbe sempre richiedere una completa trasparenza da parte delle aziende con una comunicazione chiara e attendibile redatta da numeri e certificazioni. Il mondo reale è sempre molto dissimile da quello ideale e teorico, e dinfatti la trasparenza non solo dei bilanci aziendali ma delle stesse campagne green, sia di marchi piccoli-medi che di nomi più illustri, è molto spesso opaca e pone dei sostanziali dilemmi sul dare fiducia o meno a un certo tipo di pratiche di marketing.
Per riuscire a discernere meglio e in modo più consapevole lo spettro del green marketing dobbiamo considerare che, come ogni strategia di vendita in un sistema di produzione capitalistico, l’obiettivo è massimizzare i profitti, fidelizzare i clienti e ottenere il più possibile un utile per chiudere un bilancio in attivo.
Tutto questo può essere realizzato promuovendo un green marketing lecito. Il problema è che per un marchio piccolo-medio che opera in segmenti dove l’uso di combustibili fossili e sostanze inquinanti è ancora massivo, scegliere un percorso alternativo più sostenibile implica sostanzialmente alcune perdite che possono essere recuperate, per esempio alzando leggermente il prezzo finale del prodotto, il quale corregge anche il target di clientela.
Il consumatore finale è disposto a pagare di più se la filiera rispetta quello che ha dichiarato di fare. Se così non fosse, questo patto non solo sarebbe scorretto ma permetterebbe all’azienda di aumentare l’utile solo grazie a un abile storytelling fallace.
La parola magica eco– negli ultimi anni si è diffusa a macchia d’olio nel marketing, trainata da un interesse sempre maggiore nei confronti delle tematiche ambientaliste soprattutto in quei prodotti targettizzati per i più giovani, gli stessi che sostengono maggiormente le tematiche di Fridays for the future.
L’azienda San Benedetto è stata sanzionata nel 2009 proprio per greenwashing. Al contrario, è utile ricordare che la lista delle aziende virtuose con campagne pubblicitarie eco friendly comprovate è lunga, e tra le più note ci sono le svedesi ikea e H&M.
Lo spaccato del greenwashing deve farci riflettere maggiormente come consumatori consapevoli e interrogare di più sulla pubblicità come uno strumento di persuasione finalizzato alle vendite più che un vero e proprio manifesto di intenti. La green economy è un argomento serio e va trattato come tale: l’ossatura del sistema deve essere sostenuta da dati e azioni, e dall’uso di risorse finalizzate al ridurre l’impatto ambientale per generare business in modo più responsabile.
Il green marketing è solo una delle tante forme con cui si può pubblicizzare un prodotto: in generale, il marketing è un linguaggio con il quale si presenta un angolo visuale, il più performante possibile, per raggiungere un obiettivo preposto.
Analizzando il video Evolution creato per la campagna Real Beauty di Dove realizzato da Timothy Piper nel 2008, ci si può rendere conto di come il marketing può utilizzare le più svariate strategie pur di raggiungere un target. In questo caso l’azienda di cosmetica e prodotti di bellezza utilizza una campagna pubblicitaria che mette in guardia dalla distorsione dell’immagine nei media. Nonostante possa inizialmente sembrare antiproducente mira a fidelizzare il consumatore, valorizzando la sua bellezza naturale, utilizzando un tipo di linguaggio alternativo che, anche se si diversifica dalla gamma patinata degli altri competitors, ottiene lo stesso effetto.
Con Evolution e con altre pubblicità della stessa campagna (come Inner beauty), è chiaro che Dove abbracci la politica dell’inclusione. Quello che rimane in dubbio è quali siano le reali strategie preposte per detossificare l’immagine artificiosa di bellezza costantemente propugnata dai media. Infine, con la campagna Onslaught (che significa appunto attacco furioso, assalto), Dove mira a denunciare come e quanto l’industria della bellezza condizioni ferocemente lo sguardo delle bambine.
Esemplificativo nel cogliere come uno stesso linguaggio di marketing possa essere usato per denunciare la stessa azienda che l’ha creato, è il video di Greenpeace Onslaught(er), in cui compare essenzialmente lo stesso format, la stessa musica ma una denuncia sociale che accusa direttamente Dove e il suo concorso alla deforestazione.
Che serva a solleticare le emozioni degli spettatori, a positivizzare l’immagine di un brand o a criticarla, il linguaggio del marketing nella sua veste persuasiva ci circonda costantemente su tutti gli schermi e sarebbe sempre meglio riconoscere le logiche che sottende al fine di instaurare consapevolezza nel consumatore ultimo. Allo stesso modo con il green marketing bisognerebbe cercare di sottrarsi all’aspetto semplicemente emozionale della buona azione in favore dei dati e degli aspetti concreti delle campagne così da evitare spiacevoli casi di greenwashing.
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