Il cambiamento climatico è in atto: i numeri lo confermano
In un solo giorno in Groenlandia, nel giugno 2019, si sono sciolti 10 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Per “trasportare” l’equivalente servirebbero oltre 44mila navi come la MSC Gulsun (la portacontainer più grande al mondo, con una capacità di 224.986 tonnellate). La Gulsun è lunga 400 metri, ossia quanto cinque campi da calcio. Questo significa che, se messe in fila una dopo l’altra, le 44 mila navi coprirebbero due volte la distanza che separa il capoluogo della Groenlandia, Nuuk, da Rio de Janeiro: due file ininterrotte di gigantesche navi da carico piene di ghiaccio, andata e ritorno, dall’estremo Nord del globo all’America del Sud. È vero che quel giorno è stato uno anno dei più caldi degli ultimi dieci anni, e il secondo consecutivo di sempre, ma sicuramente non è stato e non sarà il più caldo dei prossimi dieci se continuiamo così.
Nel maggio scorso, il Mauna Loa Observatory, situato alle Hawaii, ha registrato una concentrazione di CO2 in atmosfera di 415 parti per milione, la più alta degli ultimi 800 mila anni. In quattro decenni iI Kirghizistan ha perso circa mille ghiacciai, in media due al mese e il ghiacciaio Upsala, fra Cile e Argentina, si è ritirato di 15 km in 85 anni. Tutto ciò ha delle conseguenze: il riscaldamento degli oceani più veloce del previsto associato all’aumento delle temperature sta infatti modificando il ciclo dell’acqua, influenzando così i fenomeni meteorologici con impatti rilevanti per frequenza e intensità degli eventi climatici estremi sulla fauna, sulle coste e sulla biodiversità.
Il cambiamento climatico evidenzia problematiche già esistenti, come l’ineguale redistribuzione della ricchezza, la povertà e le migrazioni
In 25 anni, secondo il Rapporto di Oxfam di settembre 2020, dal 1990 al 2015, l’1% più ricco della popolazione mondiale – pari a 63 milioni di abitanti – ha emesso in atmosfera il doppio di CO2 rispetto a 3,1 miliardi di persone, la metà più povera del pianeta. Risulta inoltre che il 10% più ricco è stato responsabile di oltre la metà (52%) delle emissioni di CO2 in atmosfera tra il 1990 e il 2015 e che all’1% più ricco si deve un contributo (15%) superiore all’intera quantità prodotta dai cittadini dell’UE: “le emissioni annuali sono aumentate del 60% tra il 1990 e il 2015: il 5% della popolazione più ricca ha determinato oltre un terzo (37%) di questo aumento mentre l’1% più ricco ha triplicato la propria quota di emissioni rispetto al 50% più povero della popolazione”.
Il cambiamento climatico, oltre a generare nuove forme di povertà, accentua disuguaglianze economiche già esistenti. L’impatto sulle popolazioni è di intensità inversamente proporzionale al loro benessere: i fenomeni più estremi colpiscono le aree meno sviluppate del pianeta, e poiché difendersi dal cambiamento è sempre più difficile e costoso, le popolazioni più povere saranno, e sono, quelle maggiormente esposte ai suoi effetti distruttivi. La Banca Mondiale ritiene che entro il 2050 i migranti climatici arriveranno ad essere 143 milioni: una popolazione analoga a quella dell’Italia e della Germania messe insieme che si muove in cerca di condizioni ambientali vivibili, generando inevitabili problemi di gestione dei flussi e di stabilità interna nei paesi di origine, transito e destinazione.
L’attenzione alla questione ambientale emerge sempre di più: stando all’Eurobarometro 2019 nei paesi dell’Unione Europea l’immigrazione resta la prima preoccupazione dei cittadini, ma rispetto all’anno prima i cambiamenti climatici sono passati dal quinto al secondo posto, superando terrorismo e incertezza economica. Sembrerebbe pertanto delinearsi una consapevolezza della relazione tra la difesa degli esseri umani e dell’ambiente, e che quindi danneggiare l’ambiente significherebbe offendere la persona e ledere un suo diritto, ma è davvero diventata una questione etica? Oppure rimane economica? Il cambiamento climatico implica un impoverimento non solo delle classi più disagiate ma complessivo: il National Bureau of Economic Research afferma che potrebbe determinare “perdite monetarie” maggiori di quelle causate nel corso della storia da qualunque crisi economica. Di questo passo, si prevede una riduzione media del 7,7% del PIL mondiale entro la fine del secolo.
Transizione energetica e sostenibilità
Nel 1951 un impresario francese, Jean Monnet, sostenne che l’organizzazione delle risorse fosse una delle leve più potenti per trasformare le condizioni del mondo. Questa sua visione fu alla base della nascita della CECA e dell’EURATOM, fondate sul fattore energia, ed è confermata dall’evoluzione successiva dell’Unione Europea. Oggi la leva è costituita dalle fonti rinnovabili: dal punto di vista economico sono l’elemento attrattivo degli investimenti globali apparentemente più remunerativi, dal punto di vista della sostenibilità sono la risposta alla necessità di contrastare l’Effetto Serra.
Le energie rinnovabili consentono la produzione di energia elettrica a partire da fonti naturali e rinnovabili come l’energia solare, eolica, geotermica e idroelettrica. Il settore energetico produce quasi il 90% delle emissioni totali di CO2; uno dei principali benefici della loro diffusione è proprio il contributo alle strategie di decarbonizzazione del pianeta. Nell’intervallo 2010-19, il costo di produzione dell’elettricità da fonti rinnovabili è diminuito dell’81% per il fotovoltaico e del 46% per l’eolico onshore. Questa transizione energetica sostenibile ha però bisogno di una fase di assestamento nella quale i decisori politici dovranno accompagnare i sistemi economici verso il nuovo modello energetico e adattare di conseguenza i territori.
“La lotta al cambiamento climatico”, ha detto Ursula von der Leyen annunciando il Green New Deal europeo, “è la sfida che definirà la nostra generazione”. Secondo quanto indicato dalle conclusioni del Consiglio europeo del 21 luglio 2020, il pacchetto di strumenti per finanziare la ripresa economica, basato sul Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e sullo strumento Next Generation EU, dovrà garantire una quota rilevante dei finanziamenti complessivi alle misure per il clima. E così pare muoversi la politica europea: la Commissione ha infatti richiesto che almeno il 37% degli investimenti previsti dai Recovery Plan nazionali, finanziati dal Recovery and Resilience Facility (RRF), siano destinati alle azioni di contrasto ai Cambiamenti Climatici, e il Consiglio europeo ha approvato l’innalzamneto di questa soglia al 55%. Tutti questi propositi sono in linea con l’obiettivo UE della neutralità carbonica, che fissa l’azzeramento delle emissioni di CO2 al 2050. Lo stesso vale per l’aumento dei prezzi delle quote di CO2 del sistema europeo Emissions Trading Scheme, l’ETS, che prevede un mercato di quote o permessi di emissione cui sono obbligati a prendere parte i “grandi emettitori” (produttori di elettricità e grandi impianti industriali) acquistando un volume di quote di CO2 pari alle emissioni che genereranno. La recente revisione del sistema ETS ha rafforzato i meccanismi di aggiustamento del mercato; il risultato è stato che il prezzo del CO2 ha iniziato a crescere stabilmente. Secondo gli esperti di Italy for Climate l’aumento del prezzo della CO2 sul mercato ETS ha avuto un ruolo determinante nella significativa riduzione delle emissioni di tutto il comparto, con un taglio del 9% nel 2019 (pari a 150 milioni di tonnellate di CO2 equivalente) a fronte di una economia europea in crescita.
La Roadmap di Italy for Climate sottolinea la necessità di obiettivi climatici chiari e puntuali per i diversi settori dell’economia, in grado di indicare opportunità ed esigenze cui indirizzare gli investimenti del Recovery Plan. Anche l’Italia dovrà infatti rispettare i target europei di tagliare almeno il 55% delle emissioni di gas serra al 2030 per raggiungere la neutralità carbonica al 2050, attivando una serie di investimenti ingenti, non solo nel comparto energetico.
Da modelli lineari a circolari?
Il cambiamento climatico impatta sui modelli di business, e questo è confermato dal nuovo approccio del mondo finanziario. Gli investitori stanno decidendo se ridurre sensibilmente gli investimenti destinati a settori poco sostenibili, per contro si parla di finanziamenti di trilioni di dollari completamente sostenibili. Non per filantropia, sia chiaro, ma perché dal punto di vista economico questi investimenti cominciano a essere meno rischiosi e dunque più appetibili. Secondo il report di Bloomberg Nef sul “sustainable debt market”, nel 2017 a livello globale sono stati emessi green bond per oltre 180 miliardi di dollari, mentre nel 2018 la domanda di prestiti legati al tema della sostenibilità è cresciuta addirittura del 677%. La Goldman Sachs parla di 16 trilioni di dollari di investimenti entro il 2030 sulle rinnovabili, parliamo all’incirca di una volta e mezzo il PIL dell’Italia.
Siamo vicini alla svolta? Purtroppo non quanto sembrerebbe.
Il sito Coal Policy Tool è uno strumento online per identificare, valutare e confrontare le politiche adottate dalle istituzioni finanziarie di tutto il mondo per limitare o porre fine ai propri servizi finanziari destinati al settore del carbone, vagliando le relative politiche di investimento di 214 istituzioni finanziarie, su una griglia di punteggio coerente e trasparente. Goldman Sachs ad esempio, il cui punteggio è 8 sul criterio “Project”, è a 0 su tutti gli altri parametri di valutazione. Ciò significa che c’è l’intenzione di eliminare gradualmente i finanziamenti alle “thermal coal mining companies that do not have a diversification strategy within a reasonable timeframe” ma che intanto, tra gennaio 2017 e il terzo trimestre del 2019, GS ha comunque fornito 4,1 miliardi di dollari a 11 società che progettano nuovi impianti di carbone. Il che dimostra che la banca non applica criteri rigidi e che mancano severe soglie di esclusione a livello aziendale nei riguardi di tutti gli sviluppatori di carbone, ovvero una specifica strategia per uscire dal settore. Goldman Sachs come, peraltro, molte nella lista.
Ovviamente è encomiabile che la finanza cerchi di operare una direzione “sostenibile”, riducendo sempre più gli investimenti per l’uso di fonti fossili in processi produttivi dai quali ci si attende un sempre maggior orientamento da un’economia lineare a una circolare. Ma ne devono poi anche conseguire ricadute concrete: tutto dipenderà dalla sostanza degli interventi che verranno realizzati. In questo Coal Policy Tool è molto utile per confrontare propositi dichiarati e azioni concrete.
Per rispettare i target di contenimento delle temperature globali al di sotto di 1,5°C, le istituzioni finanziarie sono chiamate a chiudere tutti gli asset di carbone esistenti. La roadmap ribadita anche da Reclaim Finance non ammette ritardi: banche e assicurazioni devono impegnarsi a portare a zero la loro esposizione nel comparto del carbone entro il 2030 in Europa e nei paesi dell’OCSE e al più tardi entro il 2040 negli altri paesi. Secondo l’analisi del Coal Policy Tool tuttavia sono solo 16 (su 214) le istituzioni finanziarie con una solida politica di eliminazione graduale del carbone dai propri portafogli, con la maggior parte delle policy ancora troppo debole per impedire un’ulteriore crescita del settore.
Serve una svolta concretamente sostenibile
Da queste considerazioni emerge come la situazione ancora non sia trasparente e il futuro prossimo non così “green” come appare dalle notizie. L’Economist inaugura il suo numero di Dicembre 2020 con la copertina “Making coal history” elogiando l’America di Biden e la moda delle grandi finanziarie di investire nelle aziende di energia pulita; la rivista enfatizza la diminuzione dal 2009 del 34% in America e Europa delle emissioni da consumo di carbone, criticando i paesi asiatici e le loro politiche. L’obiettivo dell’Asia, per l’Economist, deve essere quello di fermare la costruzione di nuove centrali elettriche a carbone e dismettere quelle esistenti; uno sguardo un po’ miope vista la carenza di politiche occidentali limpidamente verdi sull’argomento. Il cambiamento climatico non è questione di propaganda politica, ma una problematica globale concreta e imminente. Ci si aspetterebbe quindi che banche quali Goldman Sachs vengano sanzionate dalle politiche americane e dall’opinione pubblica prima di criticare i paesi asiatici, dove anche Stati tra i più periferici come le Filippine hanno già introdotto una moratoria alle costruzioni di nuovi impianti a carbone e dove Giappone e Bangladesh ne stanno rallentando la costruzione.
Ora come ora ci troviamo in una situazione che va trasformata in opportunità. COVID-19 ha generato un calo delle emissioni mondiali di gas serra di quasi 3 miliardi di tonnellate in un solo anno. L’entità straordinaria di questa stima evidenzia le nostre responsabilità nell’evitare un rimbalzo di crescita attraverso politiche concrete e puntuali. Oggi è chiaro che se non sfruttassimo adeguatamente questa crisi e non invertissimo la rotta di questa curva accelerando verso la neutralità carbonica, la finestra di 1.5°C del riscaldamento globale rischierebbe di chiudersi per lungo tempo, gettandoci in una situazione ancor più critica dal punto di vista climatico.
Inoltre la grande attenzione alla mitigazione della CO2 va assolutamente accompagnata da impegni altrettanto stringenti alla questione dell’adattamento dei territori.
Anche nel migliore degli scenari IPCC, l’RCP 2.6 (Percorsi Rappresentativi di Concentrazione di CO2) che giudica possibile mantenersi al di sotto dei 2°C, gli impatti del cambiamento climatico comunque continueranno a colpire le popolazioni, poiché le temperature rimaranno elevate a lungo anche dopo che le emissioni di CO2 saranno cessate.
C’è bisogno quindi che il quadro politico-regolatorio prefigurato con il Green Deal e con le strategie degli Stati per rispettare gli Accordi sul Clima, comporti non solo interventi di mitigazione ma anche politiche di adattamento e gestione del territorio. Il primo passo consiste quindi nel supportare piani di ricerca e sviluppo del rinnovabile tarati sulle realtà locali che agiscano in chiave inclusiva, consapevoli che più aumenta la disparità tra gli individui più diminuisce la stabilità della società stessa. Potenzialmente le energie rinnovabili potrebbero coprire l’intera domanda di energia elettrica mondiale. Già oggi ogni fonte di energia pulita risulta competitiva e sostenibile rispetto alle potenzialità intrinseche dell’ambiente, della tecnologia e della politica di ciascun Paese e rispetto alle vulnerabilità locali: in Italia va bene il solare, altrove l’eolico o il geotermico. In chiave economica appare ora come ora più che un costo, un’opportunità di investimento, probabilmente con ritorni più alti. Sta a politiche efficaci favorirne l’attuazione.
Il secondo passo, consiste nell’affiancare alla mitigazione, l’adattamento del territorio, dedicando specifica attenzione alla biodiversità e alle politiche trasversali che ne presiedono la tutela. Ad esempio, in un ambiente mediterraneo come il nostro, la coesistenza di più specie forestali conferisce al bosco una maggior resistenza allo stress idrico in periodi di aridità estiva. In condizioni di cambiamento globale (delle temperature, dei livelli di inquinamento, del consumo di suolo) sono quindi gli ecosistemi con più specie a differente autoecologia a contrastare meglio i fattori di disturbo e di stress, siano essi naturali o di origine antropica.
L’analisi, la gestione del territorio e la salvaguardia delle risorse naturali mirate all’adattamento promuovono strategie di resilienza al clima. Perciò queste appaiono sempre più e meglio efficaci se basate su interventi che utilizzano o riproducono processi naturali, quali le Nature-Based Solutions (NBS) o i Sistemi Urbani di Drenaggio Sostenibile (SUDS). Le città che le stanno adottando dimostrano non solo quanto rappresentino una chiave per un futuro realmente sostenibile e in armonia con l’ambiente che ci circonda, ma anche quanto siano importanti oggi per un modello inclusivo di difesa dagli eventi climatici. Abbiamo infatti comunque contratto un debito che porterà con sé conseguenze per molti anni a venire e con cui fare i conti, anche se non sembra essere ancora abbastanza chiaro ai decisori politici men che meno agli attori economici.
Molte rapporti di valutazione elaborati degli esperti per l’UE dimostrano già l’urgenza di rafforzare l’attenzione sull’adattamento del territorio, senza il quale non si risolveranno le problematiche generate dagli effetti del cambiamento climatico che stiamo vivendo.
Bisogna capire che benessere e felicità non vanno identificati con l’aumento dei consumi energetici, bisogna cambiare il modo stesso di usare l’energia e di usare il territorio per consumare meno energia. Ci serve un modello di vita più sostenibile: non basta mettere a disposizione le auto elettriche per cambiare realmente la situazione, dobbiamo anche costruire le città, ad esempio, su un sistema di ciclabili.
In conclusione, se la mitigazione della CO2 è il primo passo, l’adattamento è la chiave di lettura e la direzione vincente per un futuro realmente all’insegna della sostenibilità responsabile e eticamente orientata al bene comune Terra.
Michele Caja dice
Questioni importanti, scritto molto bene!