Quando penso ai cambiamenti climatici la prima cosa che mi viene in mente è un ricordo, molto vivido a discapito del tempo che – ahimè – è ormai passato, di quando, alle elementari, la maestra Silvia ci spiegava che tutta l’acqua che usiamo, poi, in un qualche modo che non mi era chiarissimo, spariva. Non la poteva più usare nessuno. Nella mia testa la voce della maestra, con cui pur risparmiando colori e volti il tempo ha innegabilmente giocato, dice poi che anche la luce che usiamo, in qualche modo, sparisce. E prosegue poi che se anche ad alcuni adulti non importa molto il fatto che un giorno – neanche poi troppo lontano – tantissime persone non potranno contare su tutta l’acqua e la luce che usiamo noi oggi, a questi stessi adulti interessa eccome dei soldi nelle loro tasche. Ecco spiegato perché acqua e luce si pagano, conclude con un moto di rabbia la voce della maestra Silvia nella mia testa.
Sono piuttosto sicura che nell’ingiusto e curioso gioco che il tempo fa con la nostra memoria siano andati persi pezzi fondamentali del discorso della maestra Silvia (che, in ogni caso, abbraccio a distanza con affetto). Ma è anche vero che, ultimamente, mi sono trovata più volte a ripensare a quello che in modo un po’ disilluso mi è stato raccontato quando non ero altro che una testolina di suppergiù otto anni. Ci penso spesso per varie ragioni. Da una parte perché non sono del tutto convinta, oggi, che l’espediente economico sia la via più adatta e immediata a consapevolizzare le persone, e d’altronde di fronte a una situazione che precipita a velocità spaventosa niente sembra volerci convincere a cambiare abitudini, neppure i soldi.
Niente, insomma, sembra toccarci. Mi spiego meglio: non importa quanti scienziati strillino dalle prime pagine dei quotidiani più venduti e affidabili che se non ci diamo una regolata entro cinquant’anni ci conviene farci crescere le branchie. Non importa, perché sembriamo – ed è una generalizzazione assolutamente priva di tono accusatorio – impassibili di fronte ai numeri. È una grande verità ormai evidente. Il mero dato scientifico non sembra avere una diretta conseguenza sulle nostre azioni. E allo stesso tempo, ci ostiniamo ad ignorare uno degli strumenti che ha tutto il potenziale per essere uno dei più efficaci. È come avere un bellissimo paio di scarpe ma non usarle perché le stringhe non sono allacciate, non trovate?
E cosa c’entra Amitav Ghosh, in tutto questo? Amitav Ghosh nasce nella Calcutta del 1956 e ha una carriera accademica di tutto rispetto. Specializzatosi in antropologia sociale al St Steven’s College di Delhi, è poi volato ad Oxford per un dottorato in antropologia. Oltre ad essere un accademico, Ghosh è anche un abile narratore. Il primo romanzo The Circle of Reason (1986), pubblicato in Italia da Garzanti, è solo il punto di partenza di una prolifica carriera che conta una decina di pubblicazioni. Potrebbe essere la storia di un abile romanziere come tanti, ma la figura di Amitav Ghosh è, a tutti gli effetti, la storia di una voce di denuncia il cui manifesto è senza dubbio The Great Derangement. Climate Change and the Unthinkable (2016), edito in Italia da Neri Pozza).
C’è un mondo che è ancora quasi totalmente estraneo alla sfida del cambiamento climatico: la narrativa. Il mondo, insomma, in cui lo stesso Ghosh si è formato è un mondo che, a suo modo di vedere, ignora una parte fondamentale della vita di oggi. E ignorandola, escludendola dalle forme della narrazione, in un certo qual modo la delegittima. Perché forse è il caso di essere brutalmente sinceri ed ammettere che, in fondo in fondo, in qualche modo i cambiamenti avvengono quando le situazioni si prendono di pancia. E i dati, per quanto fondamentali, non riescono ad infiammare gli animi dei più. È necessaria ed auspicabile una collaborazione tra un’imprescindibile documentazione scientifica e la capacità narrativa di tradurre quei dati in concretezze immediatamente riconoscibili. Ghosh guarda in avanti, verso quel nebuloso mondo che verrà, consapevole che un giorno quel mondo che è per noi – oggi più che mai – senza chiari confini restituirà lo sguardo. E guardandoci si accorgerà che, mentre un gruppo esiguo si sbraccia per urlare all’allarme, la narrazione e soprattutto la narrativa generale ancora si disinteressa di un pericolo che ormai, più che bussare alla porta di casa, l’ha buttata giù a calci. Se leggere un romanzo della Francia del diciottesimo secolo significa intuirvi le carsiche correnti che porteranno alla Rivoluzione, e leggere le grandi opere italiane del Secondo Dopoguerra significa fronteggiare, anche solo di sfuggita, il racconto di un’identità nazionale da ricostruire, leggere oggi non si traduce quasi mai con il fronteggiare descrizioni di disastri ambientali. In quanti libri presenti nelle classifiche c’è qualche scena (verosimile) di alluvioni? Incendi? Piogge torrenziali? In quanti libri si parla di terre aride?
Certo, The Great Derangement non è – e non può essere interpretato – come il punto conclusivo della discussione circa le migliori modalità per portare la questione ambientale al centro del dibattito pubblico. Ma è un punto di inizio, fondamentale e necessario. E – parere personale – anche un’ottima lettura.
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