Esiste un collegamento tra cambiamenti climatici e flussi migratori? Chi sono i cosiddetti “migranti climatici”? E perché ne sentiamo parlare sempre più spesso?
Secondo ilreport “Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration”della Banca Mondiale pubblicato nel 2018 gli effetti dei cambiamenti climatici provocheranno entro il 2050 143 milioni di profughi climatici concentrati principalmente in tre are specifiche: Africa Sub-sahariana, Sud-est asiatico e America latina, regioni ulteriormente gravate da instabilità politica e dove la persecuzione razziale, culturale ed etnica è più frequente.
Chi sono i rifugiati climatici?
“Le persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta, in particolare siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo, ristrettezze idriche e cambiamento climatico, come pure disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni. Di fronte a queste minacce ambientali, tali persone ritengono di non avere alternative alla ricerca di un sostentamento altrove, sia all’interno del Paese che al di fuori, sia su base semi-permanente che su base permanente”. Questa definizione viene data dall’ambientalista britannico Norman Myer nel 1995 che individua nei fattori ambientali, nella povertà e nella repentina crescita demografica le principali cause di migrazione interne ed internazionali.
Questo scatenò un acceso dibattito, soprattutto perché il cambiamento climatico non può essere ritenuto come l’unico motivo di migrazione; la domanda che si pongono gli esperti della comunità internazionale è come riconoscere il migrante climatico da un punto di vista normativo e come differenziarlo da quello “economico”.
Da un punto di vista legale, se queste persone rimangono all’interno dei confini nazionali rientrano nel gruppo di IDP, internal displaced people e possono godere della protezione sancita dal “Guiding Principles on Internal Displacements” (1998); diversamente, una volta attraversato il confine, sono ritenuti rifugiati secondo la Convezione di Ginevra del 1951 solo se la componente ambientale è in aggiunta a qualche altra motivazione. Per tale motivo, oggi non esiste una definizione giuridica che possa permettere ai rifugiati ambientali di essere riconosciuti, protetti e assistiti secondo linee guida apposite della comunità internazionale.
La storia di Ioane Teitiota, primo richiedente asilo per cambiamenti climatici.
Nel 2015 la Nuova Zelanda respinge il primo richiedente asilo per ragioni climatiche. Si tratta di Ione Teitiota, trentanovenne originario di Kiribati, uno degli stati insulari del Pacifico meridionale minacciato dall’innalzamento del livello del mare.
Dopo essere stato segnalato dalle autorità neozelandesi per aver superato il periodo di permanenza nel territorio, Teitiota fece appello per ottenere lo status di rifugiato, sottolineando che la sua famiglia avrebbe rischiato la vita una volta rimandati a Kiribati. Gli abitanti delle isole del Pacifico sono le prime a subire maggiormente gli effetti catastrofici del cambiamento climatico.
Nonostante gli innumerevoli ricorsi e il sostegno della comunità locale, il sistema giudiziario neozelandese gli negò lo status non potendo giustificare il cambiamento climatico come unica causa.
Questo episodio evidenzia la necessità e il dovere da parte della comunità internazionale di mobilitarsi per far sì che il migrante climatico sia riconosciuto e venga posto come una priorità per il dibattito internazionale sul clima.
Se non si prenderanno decisioni significative per la riduzione delle emissioni di CO2 e una solida azione di sviluppo, questo fenomeno tenderà ad aumentare senza controllo.
Lascia un commento