I disastri ambientali causati dal surriscaldamento globale come l’innalzamento del livello del mare, la siccità e gli incendi, la potenza devastante degli uragani, le precipitazioni estreme e le inondazioni, stanno portando alla nascita di nuove forme di migrazione forzata. Negli ultimi decenni si assiste all’allontanamento progressivo di intere popolazioni dalle proprie terre, situate prevalentemente nei Paesi del Sud del mondo, dove l’impatto dei cambiamenti climatici è più drammatico e si dispone di minori risorse economiche e infrastrutturali per affrontare questa crisi.
Oltre agli effetti che il surriscaldamento globale genera in termini di catastrofi ambientali, sono diversi i fattori che contribuiscono alla degradazione, alla perdita e di conseguenza all’abbandono degli habitat tradizionali, come ad esempio l’inquinamento dei terreni agricoli e delle falde acquifere causato dalle attività umane, lo sfruttamento minerario incontrollato per soddisfare la domanda dell’industria elettronica dei Paesi industrializzati, progetti di sviluppo interno come l’urbanizzazione non controllata, e il cosiddetto land grabbing: ovvero il fenomeno di accaparramento di terreni agricoli soprattutto in Africa, Asia e America Latina, per adibire vaste zone di territorio alla coltura intensiva e standardizzata di un’unica specie vegetale (monocultura), con l’obiettivo di massimizzare le rese e trarne il massimo profitto.
Inoltre, la concorrenza per le risorse naturali sempre più scarseggianti aggrava le tensioni e le guerre, rendendo inevitabile la devastazione dei luoghi in cui esse avvengono, e dunque impossibile sia la permanenza sia il ritorno della popolazione residente una volta terminati i conflitti.
Secondo il report del 2020 della World Meteorological Organization (WMO), dal 1970 al 2019 a causa delle catastrofi ambientali, il numero dei morti nel mondo si aggirerebbe intorno ai 2 milioni, la maggior parte dei quali viveva in Paesi in via di sviluppo. Oggi, in questi particolari contesti, i rifugiati climatici continuano ad aumentare esponenzialmente, e il maggior numero di essi fugge, restando tuttavia all’interno dei confini del proprio Paese. Si parla in questo caso di sfollati interni e si fa riferimento a migrazioni forzate di breve durata e di corto raggio, caratterizzate dall’intenzione di ritornare, prima o poi, nel territorio d’origine. Tuttavia, gli spostamenti possono durare più a lungo, diventando talvolta permanenti nel caso in cui i luoghi colpiti dalle calamità fatichino a ristabilizzarsi, non garantendo così condizioni di vita favorevoli. Può capitare che famiglie di migranti povere non riescano ad esercitare i loro diritti di reinsediamento, vivendo lontano dalle loro case per diversi anni, senza avere accesso all’educazione e al lavoro aumentando in questo modo la loro condizione di vulnerabilità. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), nella prima metà del 2020, i disastri ambientali hanno provocato lo sfollamento di quasi 10 milioni di persone e sono rimasti il principale fattore scatenante dei nuovi sfollamenti interni a livello globale. Secondo la stessa fonte, nel corso del 2019, la maggior parte degli sfollamenti sono stati registrati in Asia a seguito di tifoni, terremoti, piogge monsoniche, uragani e inondazioni. In Africa meridionale, i cicloni Idai e Kenneth hanno costretto migliaia di persone a lasciare le loro case e le inondazioni si sono diffuse in tutta la regione, innescando un numero elevato di nuovi sfollati. Nelle Americhe, le inondazioni hanno provocato lo sfollamento di un milione e mezzo di persone.
Come riporta nel report di quest’anno l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), l’80% degli sfollati nel mondo si trova in Paesi caratterizzati da acuta insicurezza alimentare e malnutrizione. Gli eventi meteorologici estremi nelle zone socialmente più fragili potrebbero contribuire a disastri umanitari con cui tutto il mondo, anno dopo anno, dovrà fare i conti in termini di aiuti e interventi economici e umanitari.
A pagare il prezzo più alto dei cambiamenti climatici sono i Paesi più poveri, i quali risultano essere i meno responsabili storicamente dell’inquinamento climatico, conseguenza soprattutto di modello di sviluppo non ecosostenibile, portato avanti dai Paesi più industrializzati del cosiddetto Nord globale. Ciò ha portato negli anni a interrogarsi sulla questione della giustizia climatica: i danni provocati dal surriscaldamento globale non costituiscono un problema soltanto di natura ambientale o climatica, ma è una questione etica e politica che riguarda i diritti umani e le responsabilità individuali, sociali e storiche. Se coloro che subiscono le conseguenze più gravi del cambiamento climatico sono gli stessi che hanno contribuito in misura minore a crearlo, è anche vero che la capacità di attenuare, affrontare e adattarsi alle conseguenze negative dei cambiamenti climatici è influenzata da fattori quali ad esempio il reddito. Di conseguenza, le persone che vivono in povertà o in condizioni precarie, tendono a non avere le risorse economiche e le coperture assicurative per far fronte e riprendersi dai disastri ambientali. Questo fa sì che gli effetti climatici abbiano un effetto sproporzionato sui gruppi a basso reddito e sulle minoranze.
Tutti noi siamo chiamati oggi a cambiare le nostre abitudini quotidiane e i governi hanno il dovere di adottare un sistema di sviluppo che tenga conto della salvaguardia ambientale, non solo nel rispetto della natura, ma anche per difendere e tutelare la vita di altri esseri umani che ospitano questo pianeta.
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