Parlare di clima implica parlare anche di agricoltura ed alimentazione.
Non voglio parlare di denutrizione, né sottoalimentazione, o insufficienza alimentare; trovo siano tutti sinonimi molto formali di ciò che preferisco chiamare “fame”.
Pensare alla fame, come ad una delle più grandi vergogne che affligge il genere umano, è pensare a quel 10% di popolazione che si addormenta con la pancia che brontola e il ventre gonfio di batteri. La fame è tiranna e vede intere generazioni con opportunità e capacità inferiori rispetto al resto dell’umanità, nate già deboli e con meno possibilità di un completo sviluppo fisico e celebrale. Nascere in un paese povero, ormai è risaputo, significa avere generalmente, sin dal principio, parecchie strade già precluse.
Come riportato dagli ultimi report della FAO (Food and Agricolture Organization): circa il 45% della popolazione mondiale può essere definito “rurale” e ad oggi l’agricoltura fornisce alimenti in maniera diretta a circa 2,5 milioni di persone.
I paesi comunemente definiti del “Terzo Mondo” dipendono direttamente dalla biodiversità: nella pesca e nel raccolto, nella resistenza di questi ai cambiamenti climatici, dal territorio circostante e dalla sua produttività e conservano un rilevante patrimonio di tecniche tradizionali agricole e pastorali. I paesi occidentali, più avanzati sul piano tecnologico e con ingenti risorse di capitale disponibile, sono in grado oggi giorno di fronteggiare al meglio questa perdita crescente di varietà biologica; sebbene nel lungo periodo sarà una questione che porterà tutti seduti allo stesso tavolo.
Non è un caso che i paesi che più soffrono la fame, siano anche i grandi granai del mondo.
Quanta più variabilità coesiste sul pianeta, quanto più questo si dimostrerà in grado di garantire, anche per l’essere umano, una vita più prospera e longeva, permettendogli di accedere a una quantità di risorse energetiche ed alimentari maggiore e più stabile nel tempo, in termini di accessibilità e quantità, anche per le future generazioni.
Se la biodiversità scompare, i poveri saranno i primi a soffrirne e a uscirne ancora più poveri, incapaci di sfamarsi e di curarsi; per questo motivo, il tema della biodiversità è un tema chiave e imprescindibile da affrontare per sciogliere i nodi delle ingiustizie e disuguaglianze, che avvelenano la nostra specie.
La FAO include come Target numero 13 all’interno del Piano Strategico per la Biodiversità (2011-2020) non solo la salvaguardia delle specie e l’utilizzo consapevole delle risorse, ma anche l’importanza del mantenimento della variabilità genetica tra piante e animali per coltivazione ed allevamento e nel loro ambiente selvatico naturale.
Segue, al Target 18, il ruolo fondamentale dei saperi tradizionali e delle pratiche ancestrali dei nativi e delle comunità indigene e locali per la sopravvivenza e come chiave per la sicurezza alimentare, la prosperità agricola ed equità, a livello di pari opportunità.
Ed è qui che voglio soffermarmi, per introdurre un tema d’importanza cruciale, spesso oscurato o lasciato nel dimenticatoio delle notizie fugaci, che appaiono ai telegiornali, ma che si ammucchiano poi nell’oblio delle nostre coscienze: la privatizzazione delle sementi.
La Banca Mondiale (BM) riprende le ultime stime del IPBES – la piattaforma intergovernativa di scienza politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, dove afferma che oltre un milione di specie animali e vegetali sono a rischio di estinzione nei prossimi decenni.
La perdita di biodiversità comporta anche una ingente perdita economica: tra il 5 e 8% del raccolto prodotto a livello globale è direttamente connesso all’impollinazione naturale, per una stima sul mercato di un valore di circa 577 miliardi di dollari.
Un ulteriore impoverimento biologico porterebbe, quindi, a risultati disastrosi.
Da sempre, piante e specie animali sono state soggette a “selezione” più o meno naturale, di generazione in generazione, dei nuclei più resistenti: contadini e allevatori, coloro che si occupavano di sfamare la comunità e a cui ancora oggi gran parte della popolazione mondiale si appoggia, si sono preoccupati di selezionare le specie più resistenti, più nutrienti, meglio adattabili all’ambiente circostante e alle sfide climatiche. Lo stesso avvenne per gli animali, selezionando i più tenaci e ideali per alleviare le fatiche del lavoro umano o per la produzione carnivora.
Anche in natura, come meccanismo evolutivo volto alla prosperità intrinseco della vita, è possibile assistere allo stesso procedimento: si tratta di selezione naturale dei fenotipi, cioè delle caratteristiche funzionali e morfologiche degli organismi, che permettono mutazioni intraspecifiche e che alimentano la variabilità. Di conseguenza, si evolvono solo quegli organismi dotati di particolari caratteristiche con maggior resistenza nella lotta alla sopravvivenza.
Attualmente, la principale causa della perdita di diversità biologica ricade nell’espansione dei moderni sistemi agricoli intensivi e volti al commercio industriale su larga scala.
Il seme rappresenta quel piccolo anello indissolubile nel concetto di biodiversità, da cui ha origine la vita e la prosperità sulla Terra.
Negli ultimi anni, la regolamentazione internazionale e l’ingegneria genetica hanno contribuito a sradicare questa risorsa dalla sua sfera sociale, culturale ed ecologica, riducendola a mera risorsa economica.
La privatizzazione delle sementi consiste nella possibilità di brevettare codificazioni di genoma, ponendo quindi i diritti di proprietà sulle varietà fitogenetiche modificate e di conseguenza, riscuoterne una quota sulla vendita.
Questo venne stabilito nel 1995 negli accordi del TRIPS (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), a seguito dell’Uruguay Round.
La vendita di sementi coinvolge i contadini, le grandi aziende agricole, ma anche i singoli stati, che comprano grandi quantità di semi per piantagioni su larga scala, per la rivendita o la redistribuzione sottoforma di sussidi rurali.
Porre diritti di proprietà sulle sementi comporta una riduzione della biodiversità, e riduce le possibilità di scelta per gli agricoltori e i consumatori.
Il mercato mondiale del seme ha un valore di fatturato di 66,9 miliardi di dollari, ma circa il 50% della produzione viene gestita interamente da poche grandi corporazioni chimico farmaceutiche. Sul podio troviamo: Bayer, BASF, Sinochem, Limagrain, Corteva Agriscience.
Il problema di fondo non sta tanto nella possibilità di modificare geneticamente risorse fitogenetiche, tecnica che viene tutt’ora utilizzata strategicamente e potrebbe essere implementata su larga scala nella lotta al cambiamento climatico; quanto nella necessità di regolamentazione del sistema di esercitazione dei diritti di proprietà su tali risorse.
Tutti i semi che vengono piantati a fini commerciali, devono essere registrati, secondo quanto venne stabilito nel 1961 dalla Convenzione Internazionale per la Protezione delle Nuove Piante (UPOV), al fine di promuovere ed assicurare un sistema efficiente di protezione delle varietà intraspecifiche. Il numero di varietà a cui possono avere accesso i contadini è complessivamente aumentato; in particolar modo, è stato possibile diffondere varietà selezionate o modificate più resistenti, più produttive o più salutari per la salute umana o animale (come, ad esempio, per i semi oleosi: son state selezionate varietà con una concentrazione di glucosio inferiore e quindi più adattabili ad essere utilizzati come mangime animale). Tuttavia, la certificazione implica controlli, studi in appositi laboratori, costi e tempi d’attuazione per permettere che il seme possa essere approvato e possa essere poi prodotto a fini commerciali. Qualsiasi seme non certificato, che un tempo veniva scambiato, venduto, regalato e custodito dai contadini, non può essere più messo in commercio e diventa automaticamente illegale.
Sul libero mercato agroindustriale le varietà in commercio reperibili vengono fornite prevalentemente dai grandi marchi corporativi della monocoltura intensiva, a discapito dei contadini e delle piccole aziende a gestione famigliare, ma anche a discapito dei consumatori, che vedono ridotta la varietà di prodotti alimentari disponibili.
Chi controlla le risorse alimentari, determina e incide sul diritto stesso dell’intera umanità alla sovranità alimentare dei popoli, cioè di sfamarsi e di poter avere accesso alla terra e a risorse sane, locali e nutrienti.
Sebbene sia corretto riconoscere i meriti intellettuali ed economici al progresso scientifico, la regolamentazione di tali scoperte deve essere ponderata e posta al servizio dell’umanità, nel rispetto dell’equilibrio della Natura e dei suoi cicli. Forse, un giorno, l’uomo entrerà in una più profonda ed intima comunione con la vita e da quel momento saprà disegnare una nuova società di rispetto e reciprocità.
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